L’inchiesta di Milano pone un problema politico: i grandi gruppi sono padroni di un territorio dove la sinistra (in teoria al potere) è stata ridicolizzata

C’è qualcosa che nessuno ha il coraggio di dire sulle vicende milanesi di questi giorni. Un po’ per pudore, un po’ perché conviene a tutti scaricare sul povero Sala tutte le decisioni, e un po’ per paura che il dibattito degeneri ancora di più.

Ma ogni tentativo di confinare il tutto in un recinto locale – “tocca all’amministrazione comunale risolvere il verminaio portato alla luce dall’indagine della magistratura” – è una tesi che fa acqua da tutte le parti. Così come è patetico respingere ogni paragone con le tristi vicende di Tangentopoli, scoppiata nella stessa città 42 anni fa. Come si fa a non vedere le analogie, o peggio ancora a ignorare che la politica sta rifacendo gli stessi identici errori?



Una premessa è doverosa, e riguarda la decisione che Beppe Sala ha illustrato in queste ore dentro una sala consiliare dove la tensione si tagliava a fette. Fuori, sotto il sole cocente, una folla che non si vedeva da tempo di sostenitori radunata in piazza della Scala perché dentro non c’era più posto.

Diciamolo subito: la scelta di “restare” perché ha “le mani pulite” è giusta e comprensibile. Perché mai Sala dovrebbe dimettersi? Un avviso di garanzia – peraltro recapitato via stampa – certifica una cosa molto semplice: che la magistratura sta indagando a tutto campo, e che anche i comportamenti del sindaco rientrano in quel perimetro. Ma è un’indagine, e avrà il suo corso. I risultati si vedranno (forse) nei prossimi mesi.



La questione politica, però, è tutt’altra faccenda. E impone risposte immediate. Riguarda innanzitutto le scelte di politica urbanistica, e – cosa altrettanto grave – il modo in cui un gruppo di potere è riuscito di fatto a espropriare i rappresentanti eletti della loro funzione di controllo del territorio. Non siamo solo davanti all’ennesimo duello tra politica e magistratura (che pure c’è, ed è solo all’inizio). Siamo nel cuore di un business miliardario che ruota attorno allo sviluppo immobiliare dell’unica città d’Italia dove gli immobili hanno ancora valore.

La vera domanda allora è: com’è stato possibile che un gruppo di potere si sia infiltrato così a fondo nelle maglie di un apparato amministrativo vasto ed esperto? Com’è potuto accadere che un’azione sistematica di lobbying a favore dei grandi gruppi non solo non sia stata percepita come una minaccia, ma addirittura accolta come parte legittima del gioco?



La risposta, per quanto scomoda, è semplice. È stata possibile per via di una colossale confusione di ruoli, a cominciare dall’assessore Tancredi che si è infatti dimesso. Mi spiego meglio. Il gruppo di pressione –  che oggi possiamo finalmente chiamare con i loro nomi: i Boeri, i Catella, le De Cesaris, eccetera – negli ultimi anni ha condotto in prima persona una battaglia politica in nome del riformismo, pretendendo un posto all’interno della maggioranza.

Un riformismo di marca milanese, di chiara matrice socialista e post-craxiana, che si è autoproclamato l’unico legittimo interprete del “buon governo”. Il risultato? Ogni altra posizione, soprattutto se di “sinistra”, è stata ridicolizzata, silenziata o espulsa dal discorso pubblico. Milano è diventata una roccaforte centrista, un fortino moderato del centrosinistra dove ogni pulsione radicale è stata sedata sul nascere. Riducendo a zero i necessari anticorpi di cui la politica ha bisogno per non cedere agli interessi privati.

E non si tratta solo di teorie: queste forze hanno occupato per anni posizioni chiave nel centrosinistra, passando senza battere ciglio dal sostegno a Bersani (la De Cesaris fu persino responsabile della sua campagna alle primarie del 2012) al cerchio magico renziano, fino ad animare oggi qualsiasi nuova avventura centrista, dentro e fuori dal PD. Ecco perché serve una risposta politica di ben altro livello: in ripristino dell’autonomia piena del PD, e della giunta Sala, dall’abbraccio mortale del potere economico, richiede il ridimensionamento di questo pezzo della stessa maggioranza.

Che questa influenza abbia avuto ricadute gravi sui comportamenti dell’amministrazione comunale è ormai evidente. Quando si denunciava che Milano, da città aperta e attrattiva, si era trasformata in una vetrina esclusiva pronta a espellere i ceti popolari, si veniva accusati di fare allarmismo. Ora, con le carte sul tavolo, tutto diventa più chiaro. Basti un esempio su tutti: l’intercettazione in cui la De Cesaris deride – con tono infastidito – un timido tentativo di difendere il commercio di prossimità. Quello vero, quello dei quartieri, non delle gallerie del centro messe all’asta per milioni di euro di affitto.

Ecco il punto politico: se il riformismo non è incardinato in un sistema di valori e principi condivisi, se non si confronta con i bisogni popolari a cui si chiede il sostegno, finisce per somigliare a quello che stiamo vedendo. Un ceto politico e tecnocratico che confonde i propri affari con i bisogni di una città. E diventa un rischio per la credibilità stessa del centrosinistra. Milano ha bisogno di una svolta. Di sapere, una volta per tutte, chi comanda davvero nel centrosinistra. E questo vale per l’Italia intera.

Serve dare più potere ai cittadini e ai loro rappresentanti. E magari se questo significa qualche grattacielo in meno, ce ne faremo una ragione. Se Inter e Milan si faranno i loro stadi privati a Sesto o Rozzano? Che lo facciano pure ma con i loro soldi. Se Milano deve tornare a essere dei milanesi che ci vivono e ci lavorano, si potrà pure rinunciare a qualcosa. Anzi, è ora di farlo.

 

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