I quattro minorenni che a Milano hanno investito e ucciso la 71enne Cecilia De Astis sono stati trovati in un vicino campo nomadi. Non sono imputabili
Il fatto di cronaca è gravissimo: a Milano quattro ragazzini alla guida di un auto investono un pedone e lo uccidono. Poi scappano.
È’ omicidio, omicidio stradale, un reato punito oggi con pene elevatissime. E tutti le invocano. Gli autori del reato vengono presto identificati, ed ecco la sorpresa: sono giovanissimi, hanno tra gli 11 e i 13 anni.
E tutto cambia, almeno sotto l’aspetto processuale. L’art. 97 del codice penale parla chiaro: “Non è punibile chi nel momento in cui ha commesso il fatto non aveva compiuto i 14 anni” e il codice minorile impone, di conseguenza, la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere. Nel nostro codice opera, infatti, una sorta di presunzione (iuris et de iure, dicono i giuristi) per cui un giovane che ha meno di 14 non è in grado di intendere e volere. E ciò indipendentemente dal reale grado di sviluppo psicofisico del soggetto.
È un principio di civiltà giuridica, condivisa da molti ordinamenti giuridici europei, che si giustifica col ritenere che la personalità del minore di 14 anni è ancora in fieri e che quindi la sua personalità, il suo carattere e soprattutto la sua capacità di volere (più che non quella di intendere) è ancora in formazione.
Per queste ragioni il legislatore ha ritenuto opportuno evitare che il regolare sviluppo del giovane venisse frustrato da una sanzione penale.
Ma il fatto-reato resta grave e il minore può essere un soggetto pericoloso. L’ordinamento prevede quindi che possano comunque essere presi dei provvedimenti a tutela della collettività e del minore stesso.
Se sarà accertata la sua responsabilità e se sarà ritenuto essere un soggetto pericoloso, il giovane potrà essere sottoposto ad una misura di sicurezza (la libertà vigilata o l’obbligo di risiedere in una struttura comunitaria).

Potranno anche essere assunti provvedimenti di natura civilistica come l’allontanamento dal nucleo familiare qualora questo sia ritenuto inidoneo ad educare il minore (e nel caso in questione le prime notizie riferiscono che i quattro giovani vivono in un campo nomade e si sarebbero resi responsabili di altri fatti illeciti).
Insomma l’approccio che le istituzioni devono avere in questo caso è duplice. La prima è cercare di capire le cause che hanno portato il minore ha commettere il reato, rimuovere gli ostacoli che ne impediscano un regolare sviluppo e cercare di supportare il giovane nel suo percorso di crescita.
La seconda è tutelare l’interesse della collettività garantendo livelli accettabili di sicurezza sociale. Assistenti sociali, comunità per minori e forze dell’ordine operano congiuntamente per assicurare interventi che favoriscano il raggiungimento di entrambe questi obiettivi.
Resta il dolore delle vittime. Il lavoro degli assistenti sociali sarà anche quello di supportare le persone offese e, nel contempo, far comprendere ai giovani autori di reato la gravità delle loro condotte e l’immenso danno che hanno causato alle vittime e ai loro cari.
Alle persone offese sarà certamente di ben modesta consolazione ottenere risarcimenti economici dai genitori dei minori (che spesso sono nullatenenti). E qui dovrebbe intervenire lo Stato, con forme risarcitorie che almeno leniscano le gravi conseguenze causate dei reati.
Vi è, infine, ma non è certo il meno rilevante dei problemi, la questione di fondo, l’emergenza sociale ed educativa da affrontare e risolvere. Ed è quella dell’integrazione nel tessuto sociale delle nostre città di giovani, spesso delle più diverse etnie, che vivono nelle periferie e che spesso non hanno luoghi di aggregazioni o occasioni lavorative che evitino la altrimenti inevitabile caduta nell’illecito.
Ma questo è un problema che certo non può essere risolto dall’apparato giudiziario e neppure con la repressione, come da più parti oggi si invoca, ma da un’assunzione dí responsabilità da parte della politica e delle realtà sociali del territorio.
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