Oggi è in programma un incontro tra Donald Trump e Ursula von der Leyen che potrebbe essere cruciale per la questione dazi
Oggi sul campo da golf costruito a Turnberry in Scozia e dedicato alla madre scozzese di nascita, Donald Trump potrebbe mettere fine alla triste telenovela dei dazi non con il modello britannico, speranza dell’Unione europea, ma con quello giapponese. Cioè non 10% su tutte le merci esportate negli Usa, ma 15%. Usiamo il condizionale perché non sappiamo di quale umore sarà il Presidente americano; a giudicare dalle foto sul golf cart non sembrava molto rilassato, sarà stato il jet lag.
Le possibilità di chiudere sono del 50% ha detto Trump appena atterrato. Ma è meglio mettere le mani avanti perché, anche se non si arriva a una vera e propria lite con Ursula von der Leyen, ci saranno una serie di passaggi ulteriori, con il rischio di perdersi tra i dettagli. La Presidente della Commissione europea non è litigiosa, il Presidente americano sì e gode ad esserlo.
In Scozia ci sarà anche il Primo ministro britannico Keir Starmer e non farà da maggiordomo, cerca di spuntare qualche nuova esenzione, ma la speranza europea è che possa diventare mediatore o persino arbitro se le cose si mettono male. Nei giorni scorsi agenzie di stampa internazionali davano per fatto l’accordo e si era levato un sospiro di sollievo nelle borse, ma anche a Bruxelles. Il 15% è meglio del 25% o di tutte le cifre percentuali che sono girate nella gran tombola delle tariffe.
L’Ue ha coltivato troppe illusioni: prima zero dazi per tutti (ipotesi irrealistica) poi il 10% o niente, e aveva preparato persino un pacchetto di ritorsioni. Nel suk di Donald Trump tutto può accadere, ma questa volta sono stati i negoziatori europei a cedere, spinti da molti Governi: Germania, Italia, Olanda tra gli altri hanno posto come condizione di arrivare a un’intesa comunque e non rischiare una guerra commerciale ancor più rovinosa.
Bruxelles aveva tracciato una linea rossa, ma si è capito subito che era scritta sulla sabbia. Dazi generalizzati del 10% erano un balzello pesante per l’industria europea che ha bisogno di vendere fuori e investire molto all’interno dell’Ue se non vuole ammainare la bandiera della competitività come ha spiegato il Rapporto Draghi. Con il 15% sarà ancora peggio. Le previsioni avevano già calcolato una riduzione della crescita che langue sotto l’1% quest’anno, mentre negli Usa il Pil rallenta, ma segna comunque un +2%. L’Italia risulta uno dei Paesi più penalizzati insieme alla Germania (le due principali economie manifatturiere in Europa). Ora si parla di un balzello da 23 miliardi di euro.
Non sappiamo che ne sarà del settore automobilistico (cruciale per Italia e Germania) sul quale grava una tariffa del 27,5%, oppure dell’acciaio e dell’alluminio tassati con il 50%. Il commissario Maros Sefcovic che negozia a nome dei Ventisette con il suo dirimpettaio Howard Lutnick, ora vorrebbe un allineamento del 15%. Era partito da dazi zero e ha dovuto arretrare sempre più.
La Commissione, dopo consultazione con gli Stati membri, ha predisposto una lista di beni Usa da colpire per 90 miliardi di euro; è il risultato delle due precedenti liste, la prima dal valore di 21 miliardi, già messa a punto marzo, e la seconda, dal valore di 72 miliardi, messa a punto le scorse settimane. Alla fine, Trump avrebbe anche uno sconto di tre miliardi.
Le eventuali contromisure non scatterebbero subito, cioè venerdì prossimo primo agosto, scadenza indicata dalla Casa Bianca, ma una settimana dopo, il 7 agosto. Questa volta l’Ue potrebbe decidere senza l’unanimità. Secondo fonti di Bruxelles, in caso di mancato accordo in seno al Consiglio, ci sarebbe già un ampio consenso per applicare la clausola del voto a maggioranza qualificata.
È stato il segretario al Tesoro Scott Bessent ad aver suggerito a Bruxelles di seguire l’esempio giapponese per uscire dallo stallo: insomma mollare l’irrealistico 10% per attestarsi sul 15%, magari accompagnato da qualche zuccherino. Tokyo si è impegnato a investire 550 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Per l’Ue sarebbe una pillola avvelenata spendere negli Usa risorse, anche private, che invece vanno investite in Europa (ricordiamo gli 800 miliardi per la difesa) mentre non si riesce a trovare un accordo sul prossimo bilancio da duemila miliardi di euro.
Un’altra speranza di Bruxelles, che per ora si è trasformata in illusione, è trovare sbocchi all’export alternativi al mercato americano. Nemmeno l’Asia oggi come oggi può compensare. Si è pensato naturalmente all’India (che ha stretto un accordo con Londra), ma anche a giocare di sponda con la stessa Cina. Il viaggio di Sefcovic a Pechino la primavera scorsa e i colloqui un mese con il ministro degli Esteri cinese Wang Yi giunto a Bruxelles per il 12esimo dialogo strategico Cina-Ue, non hanno portato nulla di concreto.
L’America, insomma, non si può aggirare, va affrontata con realismo, ma anche con fermezza e con coerenza. Vedremo da oggi in poi se queste due virtù hanno fatto strada in un Vecchio continente impaurito dalle nuove tensioni internazionali e dal protezionismo americano.
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