In Italia nascono pochi bambini. Troppo pochi. La denatalità pone delle difficoltà, da vari punti di vista. Nel seguito, analizziamo l’andamento della natalità negli ultimi decenni al fine di capire se la propensione a procreare sia variata in concomitanza con certi fenomeni sociali e poi avanziamo alcune ipotesi sulla propensione a procreare in Italia nel medio e lungo futuro. Il nostro proposito è non solo di evidenziare le conseguenze del protrarsi della denatalità sul piano economico e sociale, ma anche, e soprattutto, di capire se sia possibile invertire la tendenza. Che in Italia nascano pochi bambini è diventato d’attualità giornalistica un paio d’anni fa perché nel 2021 abbiamo sfiorato la “soglia psicologica” di 400mila nuovi nati e nel 2022 vi siamo scesi sotto.
La situazione è stata rappresentata come “inverno demografico”. Purtroppo, è un inverno che dura da decenni ed è destinato a durare vari anni ancora. Vogliamo capire se si tratta di permafrost, di ghiaccio permanente, o se ci sono le condizioni per il ritorno ad una qualche primavera demografica. La base statistica dei nostri ragionamenti è il cosiddetto tasso di fecondità, calcolato come numero di figli per donna feconda, ossia il numero di nati in un dato anno rapportato al numero di donne che, in quell’anno, sono in età riproduttiva. È un numero relativo che, messo in serie storica, aiuta a capire le tendenze della propensione a procreare. In Italia, nel 2022, il valore-indice era 1,24. Il valore di paragone è 2, ossia il livello al quale si realizza l’ideale rimpiazzo di una coppia con un uguale numero di figli.
Va detto che, per fare proiezioni, è necessario conoscere la propensione a procreare e non il numero di nati in un dato periodo che di quella propensione è l’esito. Infatti, poiché, in media, le italiane generano il primo figlio dopo i 30 anni (31,6 nel 2022), il contingente di italiane che nel 2022 erano potenziali madri è nato almeno trent’anni prima, quando i neonati erano non 400mila, bensì 560mila. Come termine di paragone, si può constatare (Figura 1) che, nel 2000, nascevano 543mila bambini, nel 1980 erano 640mila e nel 1970 ben 901mila. Ma quest’ultimi sono numeri irripetibili, che appartengono alla preistoria della demografia.
FIGURA 1. Tasso di fecondità (sopra) e numero di nuovi nati in Italia (sotto), 1970-2022
La Figura 1 mostra che il tasso di fecondità italiano, da valori superiori a 2 fino al 1975, è precipitato a 1,19 nel 1995, risalito fino a 1,46 nel 2010 e poi di nuovo sceso con regolarità, stabilizzandosi dal 2020 su 1,24. Un tasso dell’1,24 è così frustrante che l’Istat, in varie proiezioni su cui si è di recente esercitata, non prende in considerazione la possibilità che il tasso resti a questo livello. Analizza, infatti, l’eventualità che il tasso salga fino a 1,46 nel 2080 e questa eventualità manterrebbe le nascite sopra 400mila unità fino al 2043, poi scenderebbe di nuovo fino a 330mila nel 2080. Se, invece, perdurasse l’attuale propensione a procreare, i nuovi nati fra 10 anni sarebbero 333mila e, fra trent’anni, circa 250mila. Un dramma. Evidenziamo che un tasso pari a 1,46 è il valore massimo degli ultimi 40 anni, raggiunto prima che si sviluppasse la crisi economica 2008-2012, e che valori più elevati sono plausibili in Italia solo nel caso di una chiara inversione di tendenza.
Come si è accennato, la limitazione nella procreazione si è accentuata in concomitanza con il rapido succedersi di crisi economiche e sanitarie e di conflitti internazionali armati. Se fosse la precarietà dello sfondo sociale sul quale verrebbe ad inserirsi una nuova nascita la vera causa del procrastinare l’allargamento della famiglia da parte di molte coppie, la propensione alla natalità non sembra destinata ad aumentare granché nel breve periodo. Le crisi mondiali sembrano dietro l’angolo, tanto sono improvvise, con cadenze sempre più strette e così profondamente intimidenti anche quando hanno il centro di gravità in un’altra parte del mondo. Anzi, le preoccupazioni nate altrove prevalgono su quelle di origine locale. Molti hanno il timore che altre crisi per ora latenti ci possano pesantemente condizionare sui piani più diversi, da quello economico e sociale, a quello fisico e ambientale. Il nostro tasso di fecondità è uno dei più bassi al mondo. Vediamo allora che cosa succede negli altri Paesi con i quali spesso ci confrontiamo.
Anche in Europa l’andamento è al ribasso, ma è decisamente meno grave che da noi: nell’Unione Europea il tasso medio è stabile da molti anni attorno a 1,53. In Francia e Svezia più che altrove, ma anche in Germania e Regno Unito, il tasso è superiore alla media europea e, pertanto, considerevolmente superiore al nostro. Tra i Paesi europei con cui di solito ci confrontiamo, solo la Spagna sta peggio di noi.
Vediamo ora di quali fenomeni negativi è causa, per via diretta o mediata, la denatalità. La più evidente è lo sbilanciamento tra le generazioni. Poiché si vive sempre più a lungo, di fronte a una sottile generazione giovane si trova già oggi un’ampia generazione di mezzo e una sempre più numerosa generazione anziana. È inevitabile che, fra due-tre decenni, la generazione che ora è giovane debba produrre per molte più persone rispetto a quelle che costituiscono il carico sociale (giovani e anziani non produttivi) della generazione produttiva d’oggi. In subordine, siccome sta ai lavoratori versare regolarmente parte del proprio reddito per sostenere con la pensione chi esce dal mercato del lavoro, l’accentuarsi dello squilibrio numerico fra lavoratori e anziani può generare un grave problema per la previdenza sociale. La carenza nel numero di potenziali produttori è, dunque, il risvolto produttivo più rilevante della denatalità. Secondo Nomisma, già oggi mancano almeno 100mila lavoratori.
Secondo Anpal-Unioncamere, se il PNRR italiano svilupperà tutte le sue potenzialità, si dovranno trovare altri 80mila lavoratori l’anno nei prossimi cinque anni. Le proiezioni demografiche al 2100 dell’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, indicano che la carenza nel numero di persone in età da lavoro si acuirà con il passare del tempo, via via che la riduzione numerica dei nuovi nati porterà all’assottigliamento delle classi d’età di mezzo. Da qui al 2100, i potenziali lavoratori (che sono, per convenzione, i residenti in età 15-64) si ridurranno nella UE di oltre 60 milioni. In Italia è già stato applicato l’artificio “previdenziale” di spostare sempre più in avanti l’età pensionabile e, pertanto, l’età d’ingresso nella generazione anziana. Quello che può sembrare un artificio e che sarà, invece, una inevitabile conseguenza della combinazione tra denatalità e aumento della vita media proseguirà verosimilmente, in forma accentuata, nei prossimi anni. Si tenga conto, infatti, che l’Eurostat prevede che, rebus sic stantibus, l’età mediana della popolazione aumenti di oltre cinque anni, dagli attuali 43,7 a 48,8 anni nel 2100.
Un’altra conseguenza della natalità è il calo numerico progressivo della popolazione. L’Istat prevede che, attorno al 2050, gli italiani si riducano di circa 5 milioni rispetto al censimento del 2011, quando eravamo 60 milioni. L’Eurostat ha proiettato la popolazione europea al 2100 nell’ipotesi che i parametri rimangano quelli odierni. Secondo l’Istituto europeo, Italia e Polonia subiranno le maggiori perdite in termini di popolazione: verso la fine del secolo, la popolazione italiana scenderà a circa 50 milioni. Si tenga presente che quella francese aumenterebbe a 70 milioni e che quella tedesca, pur diminuendo le nascite, rimarrebbe comunque quella più importante nell’Unione (83 milioni). Seppure con peso variato, l’Italia manterrebbe la terza posizione nell’Unione. Questi dati non hanno un impatto diretto sulle famiglie, però possono influire sul piano internazionale, dove il peso demografico è una variabile di sfondo nella definizione degli equilibri politici.
Un’altra conseguenza della denatalità è la pratica necessità di valorizzare l’immigrazione. L’immigrazione contribuirà a parzialmente bilanciare l’insufficienza di lavoratori rispetto alle attese del mondo produttivo. Ci saranno problemi non banali di integrazione sociale e linguistica, formazione, collocazione produttiva dei lavoratori, e altro. Comunque sia, l’Eurostat, nel realizzare la propria proiezione, ha già data per scontata l’integrazione di contingenti di immigrati nei Paesi dell’Unione. Anche dopo l’integrazione di lavoratori immigrati, lo sbilanciamento tra la necessità di forza lavoro e le persone in età da lavoro, già oggi palese in Italia anche a causa della fuga di cervelli, diventerà ancora più grave nel medio e lungo periodo.
Non v’è dubbio, allora, che vada promossa la propensione a procreare. Poiché è verosimile che i discorsi sullo sbilanciamento tra classi d’età e sulla carenza di lavoratori non abbiano grande presa sui singoli, come si possono convincere gli italiani e le italiane a fare figli? Anzitutto, imparando dagli Stati che hanno avuto successo nell’invertire la tendenza alla denatalità, in modo particolare da Francia, Svezia e Regno Unito.
In Francia, lo Stato coccola le coppie con una quantità di provvidenze volte a favorire la natalità, tra le quali: assegni per ogni nuovo nato, sconti fiscali poliennali per l’assunzione di babysitter, asili e collaboratrici domestiche, supporti clinici e psicologici alla natalità, stimolo alla creazione di cooperative di assistenza per infanti e giovani, sussidi particolari per il secondo e terzo figlio e per le madri sole, tanto per menzionare quelle più suggestive. È percezione condivisa dai francesi che i figli siano non solo una fonte di affetti famigliari, ma anche una risorsa collettiva: il contesto normativo e le prassi sociali sono orientati a dare alle famiglie la sensazione che i figli non saranno lasciati soli in caso di difficoltà, che le difficoltà ci siano oppure siano solo potenziali. Anche le imprese favoriscono la maternità con il part-time, il lavoro a distanza e contributi alle spese correlate alla natalità. Ecco perché la Francia è solo sfiorata dal problema della denatalità. La stessa convinzione dei figli come patrimonio (anche) della collettività pervade le norme e le prassi di Svezia, Regno Unito e Germania, altri Stati europei che hanno rovesciato la tendenza al declino della natalità. Naturalmente, la mentalità della gente non si cambia né facilmente, né d’improvviso. Bisogna investire, economicamente e culturalmente, con pazienza e determinazione.
Anche questi Paesi hanno inserito una decisione strettamente individuale, qual è quella di procreare, in un problema della collettività, con solo lievi differenze ideologiche tra partiti sul modo per risolverlo, ma con l’obiettivo comune di far crescere la propensione nelle famiglie. La propensione a generare può essere rinforzata rimuovendo, per quanto possibile, l’aleatorietà del futuro che molti percepiscono come ostativa a mettere al mondo figli che si troverebbero ad affrontare foreste di difficoltà. Non si parla, ovviamente, dell’incertezza fisiologica sul futuro, nel senso che il futuro è per sua natura incerto. Anzi, si può dire che, per fortuna, lo è. Si parla, invece, di un futuro percepito ad alto rischio di pandemie, guerre improvvise e disastri naturali che possono rendere dura la vita anche per chi non ne è causa diretta. Va detto che questa percezione è presente anche nel retropensiero dei cittadini degli Stati che hanno invertito la tendenza alla denatalità.
Ci sembra, tuttavia, che vi si possa, almeno parzialmente, rimediare socializzando il futuro, ossia cercando di anticiparlo immaginando i problemi plausibili e le relative soluzioni. Immaginare il futuro collettivo, discutere con altri le soluzioni ai problemi che si possono presentare, esercitare la fantasia nella soluzione di problemi di fondo, tutto questo può circoscrivere l’aleatorietà degli eventi, aleatorietà che si può trasformare in terrore per il futuro. Un terrore altrimenti paralizzante.
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