JESSICA PRATT/ “Here in the Pits”: l’altra faccia del sogno della California

- Paolo Vites

Nel suo nuovo disco la cantautrice californiana Jessica Pratt disegna un affresco di melodie antiche e suoni pieni di fascino

Jessica Prattok 640x300 Jessica Pratt

Cosa resta del sogno di California, delle sue estati senza fine, delle sue onde lunghe, delle sorridenti ragazze e dei mercoledì da leoni? Da quando i Mamas and Papas con la loro California dreamin’ rinnovarono il mito della terra promessa (l’architetto Frank Lloyd Wright sosteneva che “l’America è un grande piano inclinato dove tutto prima o poi rotola verso la California”) spingendo migliaia di giovani a cercarvi il paradiso in terra, quel sogno si è infranto e sbriciolato. Lo fecero per primi gli Eagles, con la loro Hotel California, descrizione di un luogo diventato un incubo, ma prima di loro lo aveva fatto Charles Manson, l’Anticristo hippie con la strage di Bel Air nel cuore di Hollywood.

I fantasmi di quel sogno sopravvivono e si aggirano inquieti nel bel disco nuovo di Jessica Pratt, che dà loro voce e ombre, Here in the Pitch.

La ex ragazzina cantautrice indie che registrava i suoi dischi in camera da letto accarezzando in modo infantile la sua chitarra si è fatta donna, ha assunto nelle sue melodie echi di Beach Boys e di Phil Spector e ha prodotto un piccolo capolavoro. Armonizza il presente con il passato con un’alchimia che sembra completamente fuori dal tempo, quasi colonna sonora di un film di David Lynch, un velluto blu ambientato non a Twin Peaks ma sul Sunset Boulevard a notte fonda.

La sa lunga Jessica, capace di recuperare l’azzardo di Brian Wilson quando voleva essere il nuovo Phil Spector con la sua Guess I’m Dumb il cui ritmo stile Ronettes fa capolino in Life is. Lei, con una voce che ricorda la giovanissima Marianne Faithfull che intona jazz e melodie che sembrano esistere da sempre, conduce le danze e ti porta nell’oscurità: l’eredità della Manson Family e la violenza disordinata, il ventre della Hollywood Babylon di Kenneth Anger, il tutto in una atmosfera che potrebbe essere dream pop.

Spazia in mitologie antiche, Jessica, come nella deliziosa e minimale The last year o nella bossa nova di Better hate e Get your head out, nella delicatezza folkie di World on a string, nei profumi psichedelici alla David Crosby di Nowhere it was.

Alla fine, ricordando la melodia intoccabile di Coldest night of the year, chiude con un semplice inno di speranza dopo tanti incubi e paure. The last year è una canzone che se fosse uscita negli anni 60 sarebbe stata in cima alle classifiche. Pratt strimpella accordi maggiori, le sue parole fluiscono come titoli di coda, con occasionali rulli di batteria e un pianoforte che riprende la melodia. È dolorosamente bella, un inno alla meraviglia e alla risoluzione dopo una rottura nel tessuto della vita, che racconta un nuovo inizio mentre convalida il dolore degli anni che passano inarrestabili:

Penso che andrà tutto bene

Penso che staremo insieme

E la trama dura per sempre

E le distanze che posso vedere

Siamo io e te

Me ne sono andato con tutti i cambiamenti nella mia mente

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