Ricorre oggi l’ottantesimo anniversario della prematura e sfortunata scomparsa di Jean Vigo. Sfortunata per sé medesimo, ma anche per il cinema e la sua storia, poiché Vigo con le poche opere che ha lasciato – sostanzialmente un solo grandissimo lungometraggio, L’Atalante – ha dimostrato talento visivo e ispirazione narrativa da autentico poeta del cinema; da ricordare anche come uno dei primi innovatori del linguaggio. Chissà cosa avrebbe potuto fare nel prosieguo della carriera se avesse superato la malattia che l’ha stroncato a soli 39 anni. Come un eroe romantico, Jean Vigo morì anche per attaccamento al suo Atalante: malato da tempo di tubercolosi, la lavorazione del film gli risultò fatale, svoltasi come fu nell’autunno-inverno del 1933 sullo scenario degli umidi canali francesi.
Definito “un grandissimo film d’amore” da un coro autorevole di osservatori postumi, L’Atalante uscì inizialmente nel settembre del 1934 in versione manipolata dalla produzione con il titolo di Le Chaland Qui Passe (da una canzone aggiunta senza il consenso di Vigo) e fu un fiasco; venne respinto anche dalla commissione della Mostra di Venezia. Successive versioni ripristinate, con la scomparsa della canzone intrusa e il ritorno al titolo originale, apparvero poi a partire da quella dell’ottobre 1940. Ma per vedere la versione filologica del film, la più prossima a quella licenziata dal suo autore, si dovette attendere gli anni Novanta, dopo il ritrovamento presso gli archivi del British Film Institute di una copia stampata del film antecedente a tutti i montaggi blasfemi. Il giovane cineasta quindi non vide mai edita la versione integrale del suo capolavoro, montata secondo la sua idea; destino sfrontato in misura direttamente proporzionale al suo sconfinato genio.
Se pur con una sola opera – invero importante – Jean Vigo figura nondimeno tra i precursori della modernità del cinema, quelli attivi nel pieno boom del cinema classico americano che con la loro opera hanno aperto la via al suo superamento; principalmente, ci riferiamo a Jean Renoir e Orson Welles. Anzi, possiamo ben considerare Vigo come il precursore dei precursori, dato che la realizzazione de L’Atalante precedette di qualche anno quella di La Règle du Jeu (J. Renoir, 1939) e di Citizen Kane (O. Welles, 1941), altre due fondamentali pietre miliari sulla strada verso la modernità.
Luis Bunuel, uno che di cinema se ne intendeva (eufemismo!), nel pieno delle rivoluzioni linguistiche e produttive portate dai vari movimenti degli anni Sessanta – la Nouvelle Vague, i nuovi free cinema, lo svecchiamento che si preparava anche a Hollywood – disse del film di Vigo: “Il cinema può andare avanti quanto vuole, ma non supererà mai e forse non raggiungerà mai un film come L’Atalante, un film dove c’è già dentro tutto”. Giudizio quanto mai cristallino, che riconosce la grandezza di un’opera che seppe coniugare le esperienze avanguardiste (surrealismo, soprattutto) e il cinema narrativo tradizionale tramite la semplicità assoluta dell’immagine, realizzata dal suo autore con il fondamentale apporto dell’operatore Boris Kaufman (fratello di Dziga Vertov e grande fotografo).
La storia del film fluisce sull’acqua dei canali, mobile come la voglia di avventura, e oltre la riva di essi, dove le città piccole e grandi sono il luogo di tante solitudini, simbolo di un mondo attraente ma corrotto. L’Atalante è infatti una chiatta a motore in servizio sui canali francesi. Un giorno il suo comandante Jean sposa la campagnola Juliette, graziosa e timida figlia di contadini, povera gente. La porta sulla chiatta, dove vivono e lavorano anche un vecchio marinaio (père Jules) e il mozzo. Juliette si adatta alla vita di bordo, ma dopo un po’ paiono subentrare noia e routine.
Un giorno, attratta da un venditore ambulante, Juliette scappa dall’Atalante e si perde nella grande Parigi. Il marito, rimasto solo, non sa dove cercarla, è disperato perché deve continuare il suo lavoro, ripartire con la chiatta. Lo vediamo cercarla ovunque sulla barca, e poi anche nel fiume, in quella sequenza straordinaria dove Jean fluttua sott’acqua e vede Juliette comparirgli in un poetico e visionario sogno a occhi aperti (metafora del cinema stesso); sequenza resa celebre anche dalla trasmissione Fuori Orario, di cui è tutt’ora la sigla (con l’azzeccata aggiunta delle note di Because the Night – P. Smith, B. Springsteen, 1978). Il film si conclude con il ritorno di Juliette sulla casa-barca, riportatavi dal saggio père Jules, che la ritrova in un negozio di dischi mentre ascolta, sognante, una canzona di marinai.
Il cinema di Vigo fu molto amato dai surrealisti. In un mirabile equilibrio estetico, riesce nell’intento di dare un taglio fantastico anche alle immagini più comuni, come una sorta di sguardo senza tempo sulle cose e sui volti, nel quale convivono in perfetta simbiosi la pura visione poetica della persona amata – sguardo che vorrebbe restare fisso in eterno, in contrasto con l’altro tempo del racconto, quello della vita quotidiana esemplificato dal fluire della chiatta sull’acqua dei canali – e istanze più prettamente da cinema sociale, come il raccontare della lotta tra bisogno di legami e desiderio di libertà (nel personaggio di Juliette).
Anche il neorealismo italiano, la prima grande e consapevole rivoluzione visiva della storia del cinema, deve più che qualcosa al genio innovatore di Jean Vigo. Egli fu il primo grande esempio di regista che si produce da sé, che gira in esterni reali senza scenografie aggiunte, che utilizza attrezzatura leggera a basso costo (la 16 mm), tanto da essere oggi considerato un lontano – ma neanche tanto – mentore di buona parte del cinema contemporaneo.
Comunque sia, quelle de L’Atalante di Jean Vigo rimangono tra le più belle e poetiche immagini che il cinema ci abbia regalato, intense e leggere, profonde come il tenere aperti gli occhi sott’acqua.