Il cinema, nella sua forma di compiuto racconto per immagini, che milioni di spettatori di tutto il mondo da almeno dieci generazioni ha di sé fatto innamorare, compie oggi cento anni. La ricorrenza è in parte simbolica – come sintesi impone – ma storicamente non priva di fondamento. Infatti l’8 febbraio del 1915 veniva proiettato in anteprima al Clune’s Auditorium di Los Angeles il primo lungometraggio di David W. Griffith (1875-1948) Nascita di una Nazione. Dopo la realizzazione di questa straordinaria opera il cinema non è stato più lo stesso. L’impressione fu come di una nuova musa affacciatasi prepotentemente nel proscenio delle Arti, la quale avrebbe monopolizzato l’attenzione delle masse per lunghi anni a venire.
Se i fratelli Lumiere nel 1895 avevano inventato il meccanismo, e George Melies (1861-1938) l’aveva per primo usato per fare arte e spettacolo (createur du spectacle cinematographique, recita l’epigrafe sulla sua tomba), Griffith è quello che a quest’arte e a questo spettacolo ha dato un suo linguaggio peculiare, diverso da quello di qualunque altra arte, secondo una sorta di aura sintesi tra arti plastiche e romanzo polifonico.
Il complesso della sua opera, a partire da Nascita di una Nazione, traccia una netta linea tra un cinema del prima e uno del dopo, una netta distinzione anche nel lavoro di registi e sceneggiatori tra i tempi delle attrazioni magiche di Melies a quelli di tutte le epoche e di tutti i movimenti successivi. A partire da Griffith, l’intenzione prevalente del cinema, presente prima solo in via incidentale, sarà quella di raccontare. Grazie alla sua opera, il cinema ha imboccato una via irreversibile e ineluttabile, che lo ha portato, sostanzialmente intatto, fino a noi.
Nascita di una Nazione è un film potente, vigoroso, un racconto di largo respiro su alcuni episodi della guerra di secessione americana. Un kolossal di circa tre ore con scene di massa che sarebbe arduo produrre anche oggi. Fu un notevole successo di pubblico, anche a causa della pubblicità gratuita che ricevette dalle polemiche sul suo soggetto, per i contestatori troppo vicino a tesi razziste, involontario omaggio di Griffith alle sue origini ottocentesche e sudiste. Infatti, il regista pensò di rimediare, realizzando l’anno successivo il lirico e intenso Intolerance, gigantesco e visionario pamphlet sulla tolleranza religiosa e sociale, giocato su un lungo montaggio parallelo tra quattro storie diverse.
Come detto, Griffith con Nazione mette definitivamente a punto la sintassi del cinema narrativo, che diamo oggi per scontata ma che allora non lo era affatto. Si devono al suo lavoro l’introduzione dei raccordi di montaggio (di sguardi e di movimenti) e degli stacchi sull’asse dal totale al particolare (e viceversa); l’uso dei totali di massa come dei piani ravvicinati, e dei primi piani atti alla costruzione psicologica dei personaggi, novità assoluta per il cinema di allora. Una sintassi tutta nuova dello sguardo narrativo e poetico, che pur con i suoi cento cambi di pelle è arrivata fino all’oggi.
Il capolavoro griffithiano inaugura anche l’epoca delle cosiddette Major americane, grandi case di produzione che controllavano tutta la filiera produttiva. Erano infatti proprietarie dagli studi di ripresa, delle agenzie di distribuzione e delle sale di proiezione. Avevano alle dirette dipendenze, in numero notevole, tutte le figure necessarie alla produzione cinematografica: tecnici di ogni tipo, fotografi, operatori, registi, attori – sia i divi che i generici – scrittori di copioni, costumisti, architetti, arredatori, cascatori, parrucchieri e truccatori. Queste grosse strutture, richiedendo importanti investimenti, avevano allora bisogno di prodotti e non più di prototipi (leggi avanguardie ed esperimenti vari); prodotti che “viaggiassero” bene presso il grosso del pubblico, sempre più ampio e affascinato dalle nuove possibilità che il mezzo stava acquisendo: la narrazione per immagini di Griffith era semplicemente il prodotto perfetto.
Le Major diedero così il via a una fase unanimemente considerata aurea della storia del cinema, quella classica, ma che beffardamente contiene in sé una sorta di rovescio della medaglia. Vale a dire: con l’andare del tempo, si assiste a una specie di effetto di lock-in culturale – se così definibile – secondo cui, presso il grosso del pubblico (in tutto il mondo e ancora oggi), il cinema in genere è identificato con quello di tipo narrativo/hollywoodiano. Domanda all’Uomo della strada: “cos’è il cinema?”, risposta dell’Uomo della strada: “una storia, un racconto”; domanda: “cos’hai visto?”, risposta: “il film raccontava di uno che ..”. È, purtroppo, anche questo il lascito culturale e sociale di Griffith (senza sua colpa) e della Hollywood dei suoi tempi (con un po’ di consapevole colpa), almeno in Occidente. Tutto quello che esula da questa forma e da questi contenuti viene visto allora – mediamente – come qualcosa di strano e alieno. Ma allora le avanguardie, i movimenti, il cinema moderno, quello sfacciatamente post-moderno, cosa sono? In quale mondo stanno?
Si innesta su questo anche l’eterna polemica tra autonomia di un autore e diritto (presunto) del pubblico a capire, tra esigenze di ritorno economico dei produttori e libertà espressiva dei registi. Alla lunga, il suddetto effetto di lock-in si può vedere anche come una delle ragioni dello scadimento medio del cinema odierno, fenomeno mondiale che in Italia assume caratteri peculiari e dimensione drammatica, secondo una china in discesa che, allo stato attuale delle cose, appare irreversibile.
Alla fine la Hollywood classica ha finito per fagocitare il concetto stesso di cinema, diventando presso la maggior parte del pubblico il solo tipo di cinema degno di cittadinanza, senza colpe – lo ribadiamo – imputabili a Griffith o ad altri che come lui quell’epoca hanno fatta grande. La fecero grande anche perché, lui come i migliori altri, pur nel chiaro intento di raccontare e intrattenere il pubblico, non dimenticarono la natura eminentemente visiva della settima arte. Anche per questo grandi onori dobbiamo oggi al padre del racconto cinematografico.