Già è stato ricordato su queste pagine come, nel riformare l’art. 18, l. n. 300 del 1970, la legge Fornero sul mercato del lavoro (l. n. 92 del 2012) abbia aperto molteplici questioni interpretative e applicative. Una delle più rilevante riguarda senza dubbio la norma che, al comma 4, prescrive la reintegrazione “debole” (perché limitata quanto all’entità del risarcimento del danno) allorché il giudice «accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato». A essere controverso è stato da subito il senso dell’espressione insussistenza del fatto contestato.
Non c’è dubbio, infatti, che a fondamento del licenziamento ci debba essere un comportamento del lavoratore, dunque una circostanza oggettiva, un fatto appunto. Questo, però, deve essere tale da integrare un giustificato motivo soggettivo, che la legge definisce «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali» (art. 3, l. n. 604 del 1966), oppure una giusta causa (art. 2119 c.c.), cioè un inadempimento più che notevole, oppure comportamenti non costituenti inadempimenti degli obblighi contrattuali, ma di gravità tale da ledere la fiducia del datore di lavoro nell’esattezza dei futuri adempimenti (tra le molte, Cass. 3.9.2013, n. 20158; 17.9.2014, n. 19612).
Pertanto, finora, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, la valutazione giudiziale s’appuntava sull’esistenza del cosiddetto “fatto giuridico”, ossia delle ragioni giustificatrici del licenziamento; a tal fine tenendo conto, da un lato, della gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro, della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare (Cass. 26.4.2012, n. 6498). In altre parole, la verifica sull’esistenza del fatto oggettivo posto a fondamento del licenziamento non era disgiunto e autonomo dall’accertamento sulla sussistenza delle ragioni giustificatrici dello stesso, ma faceva corpo con questo, rappresentandone una fase.
Il nuovo testo del comma 4 ha messo in crisi questa impostazione, perché la “insussistenza del fatto contestato” sembra riferibile al comportamento nella sua oggettività, cioè a prescindere da ogni altro aspetto, anche e soprattutto soggettivo. Come dire che basta l’esistenza effettiva del comportamento contestato a escludere la reintegrazione, cosicché l’accertamento giudiziale s’appunterà preliminarmente sul quel fatto e soltanto in seconda battuta, se esso esiste, sulle ragioni giustificative. L’effetto complessivo è una riduzione dell’area garantita dalla reintegrazione.
Non stupisce che sul punto sia sorto un vivace dibattito. In realtà, la giurisprudenza di merito sembra essersi orientata lungo una linea di continuità con il regime previgente, con un sostanziale svuotamento della portata del comma 4. Di norma, infatti, essa ha identificato il fatto con il “fatto giuridico” e quindi l’insussistenza del fatto con la carenza di giusta causa o giustificato motivo. Si è detto, al riguardo, che «il fatto contestato che deve essere insussistente per consentire l’operatività della tutela reintegratoria non è solo il fatto materiale o storico, ma il comportamento del lavoratore che deve essere qualificabile come comportamento imputabile».
Sul punto, ha preso ora posizione la Corte di Cassazione, con sentenza n. 23669 del 6 novembre scorso. Secondo i giudici, «il nuovo art. 18 ha tenuto distinta […] dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo», perciò la reintegrazione «trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento». E si precisa che tale verifica «si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali», cosicché esula dalla fattispecie contemplata nel comma 4 dell’art. 18 «ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato» al lavoratore.
Invece, le “altre ipotesi” che, ai sensi del comma 5 dell’art. 18, determinano l’applicazione del regime risarcitorio, si verificano quando «emerge in giudizio che non vi sono gli estremi integranti la giusta causa o per il giustificato motivo soggettivo». Tra tali ipotesi, si precisa ancora, rientra anche la «violazione del requisito della tempestività», in quanto «elemento costitutivo del diritto di recesso». Diversamente la “immediatezza della contestazione” è mera regola procedurale la cui violazione, come del resto quella di tutte le altre regole di tal fatta, è sanzionata dal comma 6 dello stesso articolo.
Dunque, non c’è dubbio che il favore della Corte vada alla tesi che sottolinea la diversità del nuovo regime dal precedente, scindendo l’accertamento del fatto dalla valutazione sull’esistenza del motivo di licenziamento. Non si esclude soltanto qualsiasi valutazione sulla proporzionalità della sanzione alla gravità del comportamento, ma si sottolinea che l’accertamento del giudice si deve appuntare solo sul “fatto materiale”, precludendo spazi di discrezionalità giudiziale.
Si tratta della lettura più aderente alla lettera e alla ratio della legge. Va anche detto, però, che non si può ritenere definitivamente risolta la questione: per quanto importante e significativa, infatti, è pur sempre la prima sentenza al riguardo. Perciò occorrerà attendere ulteriori decisioni per capire se la soluzione prospettata diverrà orientamento consolidato o sarà contraddetta.