Dopo l’approvazione del Jobs Act e dei successivi decreti attuativi, la novità che potrebbe avere un notevole impatto nei prossimi anni è certamente quella del “lavoro agile” altrimenti detto “smart working“. Il Consiglio dei Ministri, lo scorso 28 gennaio, ha varato il Disegno di legge n. 2233 recante “misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”. Tale provvedimento è in questi giorni all’esame della commissione Lavoro al Senato e dovrebbe essere a breve approvato.
Come precisato nella Relazione al Disegno di legge, il “lavoro agile” è considerato una “modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementare la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e lavoro” e si attua attraverso l’esecuzione di una parte della prestazione lavorativa all’esterno dell’azienda, senza che sia prevista una “postazione fissa” extraziendale e con possibilità per il lavoratore di utilizzare strumenti tecnologici.
Il Disegno di legge prevede che il “lavoro agile” sia concordato tra le parti con atto scritto nel quale vengono disciplinate le modalità di esecuzione della prestazione svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore, nonché ai tempi di riposo.
Il lavoratore ha diritto a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei lavoratori subordinati che prestano attività esclusivamente all’interno dell’azienda. Il datore di lavoro ha diritto di controllare la prestazione nei limiti indicati dall’accordo scritto inter partes nel rispetto della legge in materia di controlli a distanza dei lavoratori e deve osservare specifiche norme di sicurezza.
Al fine di garantire l’effettività del nuovo istituto, il Disegno di legge prevede che gli incentivi fiscali e contributivi previsti per la generalità dei dipendenti in relazione a incrementi di produttività siano applicabili anche al “lavoro agile”, come peraltro già precisato dalla Legge di stabilità del 2016. Con questa nuova figura, il Governo intende incrementare la produttività e conciliare i tempi di vita e di lavoro profittando dei radicali mutamenti tecnologici avvenuti negli ultimi anni che rendono, in molti casi, non più necessaria la coincidenza full time tra sede di lavoro e prestazione lavorativa.
Il “lavoro agile” si caratterizza per la sua radicale diversità dal “telelavoro” che, pur istituito nel lontano 1973, ha avuto finora scarsa diffusione in Italia. Il telelavoro è infatti una forma di organizzazione in cui l’attività viene svolta al di fuori dei locali aziendali presso l’abitazione del dipendente per un periodo continuativo, mantenendo per il resto i tratti caratteristici del tradizionale rapporto di lavoro subordinato. Il “lavoro agile”, invece, comporta un ripensamento radicale del modo di concepire e svolgere la prestazione (in termini di esecuzione, orario, controllo del lavoratore, sicurezza, ecc.), valorizzando anzitutto il risultato e lasciando al lavoratore ampia autonomia nei tempi e nei modi di conseguirlo.
Si passa da un concetto di rapporto di lavoro subordinato come “messa a disposizione di tempo”, tradizionalmente misurato con il “cartellino orario”, a un concetto focalizzato sul “risultato finale”, ove il tempo diventa in un certo senso secondario e di difficile definizione: si pensi, per esempio, a telefonate o mail intercorse nei fine settimana o alla sera, in cui è difficile “quantificare” e “controllare” il “tempo lavorativo” del dipendente, a fortiori nei casi in cui si mischiano – come sempre più spesso accade nella prassi – temi puramente lavorativi con altri di carattere relazionale.
Si può arrivare ad affermare che la “collaborazione a progetto”, pur abrogata dalla L. 81/2015, ha in qualche modo “contaminato” la nuova figura dello smart working che non a caso sarà in gran parte disciplinato da specifici accordi tra le parti anziché da leggi invasive e dettagliate.
Nonostante non sia stata ancora approvata la nuova normativa, alcune grandi aziende hanno già introdotto in via sperimentale forme di smart working (si segnala tra i più organici l’accordo sottoscritto da Banca Intesa il 10/12/2014 e quello stipulato da Barilla il 2/3/2015). La contrattazione aziendale ha previsto varie ipotesi di durata massima del lavoro “esterno”, ferma restando la prevalenza della prestazione resa in sede: l’accordo di Banca Cariparma dell’8/3/2016 ha introdotto un limite di otto giorni al mese con la precisazione che durante una settimana è preferibile ricorrere a tale modalità al massimo per due giorni; l’accordo sottoscritto da Barilla ha previsto un limite mensile di 32 ore, raddoppiato per determinate categorie di lavoratori (donne in gravidanza e fino al compimento dell’anno di età del figlio, lavoratore padre fino al compimento dell’anno di età del figlio, personale con invalidità superiore all’80%).
Detti accordi hanno altresì individuato le categorie di lavoratori che possono beneficiare di tale flessibilità escludendo in alcuni casi gli apprendisti ovvero i dipendenti con una ridotta anzianità aziendale, ferma restando la necessaria compatibilità della mansione lavorativa con la nuova forma contrattuale. Gli accordi aziendali sperimentali hanno anche disciplinato le modalità di svolgimento della prestazione, la programmazione delle ore di “lavoro agile”, i sistemi di controllo, di reperibilità e di utilizzo degli strumenti del lavoratore e le forme di attivazione e di revoca dello smart working.
Tutto ciò denota che tra le aziende, le parti sociali e i lavoratori è già da tempo in corso un processo di radicale ripensamento del “tradizionale” rapporto di lavoro subordinato nel contesto di una maggiore responsabilizzazione del dipendente rispetto a obiettivi e risultati condivisi. Tale corresponsabilizzazione, che per certi versi costituisce un notevole cambiamento culturale, ha come bilanciamento un riconosciuto favor per la vita privata del lavoratore, che può organizzare parte del proprio tempo e a cui non è più richiesta una presenza costante, fissa e “meccanica” presso la sede di lavoro.
A fronte del rischio incombente di “sovraccaricare” il lavoratore facendo cessare la rigida concezione – in verità ormai in molti casi mitologica – del tempo “fuori turno” quale tempo di riposo o comunque di assoluto distacco dal lavoro, sussistono molteplici benefici connessi allo smart working. Si pensi agli evidenti vantaggi “familiari” e “relazionali” che deriverebbero dalla possibilità di lavorare – almeno in parte – da casa, o comunque in un ambiente desiderato; ai risparmi anche di tempo e di consumi che scaturirebbero dalla possibilità di scelta degli orari più consoni e meno “trafficati” per recarsi sul luogo di lavoro; al positivo impatto sulla viabilità, sul sistema dei parcheggi e sull’ambiente che conseguirebbe ove nelle città metropolitane la gran parte dei dipendenti lavorasse a casa due giorni, o anche solo uno, alla settimana; ai risparmi di affitto, di riscaldamento e di pulizia che deriverebbero per le aziende dalla possibilità di allestire un numero di “postazioni di lavoro” inferiore al numero complessivo dei dipendenti, bastando a ciascun lavoratore inserire la propria password nei computer aziendali che ben potrebbero essere condivisi. Per non parlare del notevole impatto urbanistico che deriverebbe dalla possibilità di lavorare a casa uno o due giorni alla settimana, spostando così il “baricentro” della vita di molti dipendenti e rivitalizzando insediamenti abitativi anche di notevole pregio storico e ambientale posti a poche decine di chilometri dalle grandi città e in molti casi in fase di spopolamento, oltretutto con costi abitativi notevolmente convenienti. Vi sono inoltre studi che hanno dimostrato la maggior sicurezza dei contesti sociali in cui i luoghi abitativi coincidono almeno in parte con i luoghi lavorativi, come è stato nell’Italia medioevale e rinascimentale, fino alle grandi rivoluzioni industriali.
E se poi l’accordo non sortisse effetti positivi, la nuova disciplina consente comunque la possibilità per ciascuna parte di disdettare con un breve preavviso lo smart working riprendendo la forma di lavoro “tradizionale”.
La sfida è appena iniziata e l’Italia può percorrere questa direzione innovativa seguendo gli esempi virtuosi di altri paesi nei quali lo smart working è già una realtà diffusa e positivamente attuata.