Nel nostro Paese esiste senza dubbio un problema di povertà e, come ricorda Luigi Campiglio, professore di Politica economica e prorettore dell’Università Cattolica di Milano, «i dati ci dicono che il numero di famiglie italiane in forti difficoltà economiche resta particolarmente elevato».
Tradizionalmente per arrivare a individuare questo tipo di dati si usano due metodi: quello della povertà relativa e quello della povertà assoluta. Il primo «utilizza come base di misurazione – spiega Campiglio – la spesa media mensile per persona e le famiglie di due persone che hanno una spesa media mensile pari o inferiore a tale valore sono considerate povere». Secondo tale misurazione, «più dell’11% delle famiglie italiane vive in condizioni di povertà relativa». Per quanto concerne la povertà assoluta, «si individua – chiarisce ancora Campiglio – un paniere minimo di sussistenza, andando a misurare poi quanti sono in grado di accedervi economicamente. Si tratta di una misurazione molto problematica, dato che il livello dei prezzi cambia di molto, per esempio, tra una città del Nord e una del Sud. Ed è per questo che non esistono dati recenti di questo tipo».
Ma al di là di queste due metodologie, «esistono – dice Campiglio – dei dati dell’Istat poco citati che sono molto utili, perché danno informazioni sui comportamenti reali delle famiglie italiane». Si tratta dei dati dell’indagine sul reddito e le condizioni economiche in Italia riferita al 2005 e basata su interviste. «Scorrendo le cifre, si scopre che il 14,7% delle famiglie italiane ha dichiarato di “arrivare a fine mese con molta difficoltà” e, cosa più preoccupante, che il 5,8% non è stato in grado di acquistare generi alimentari». «È un dato preoccupante, perché stiamo parlando del livello necessario alla propria sussistenza».
Nonostante la diversità delle percentuali tra i diversi metodi di misurazione, «essi convergono – prosegue Campiglio – nell’individuare i gruppi sociali più esposti al “rischio povertà” e danno indicazioni robuste su un forte disagio economico presente nel nostro paese». Ma chi è più esposto a questo problema? «I dati dicono che se una persona – spiega Campiglio – potesse scegliere a tavolino la condizione sociale per garantirsi dal rischio della povertà, dovrebbe percepire un reddito, vivere in coppia con un’altra persona che lavora e non avere bambini. Con l’aumentare dei figli, infatti, aumentano le situazioni di rischio».
Per combattere la povertà nel nostro paese servirebbero quindi politiche per la famiglia, in particolare per quelle con figli. «Purtroppo bisogna constatare – sottolinea Campiglio – che in Italia questi soggetti non sono “politicamente interessanti”: c’è una colpevole trascuratezza del mondo politico nei confronti delle famiglie. Le conseguenze di questa negligenza sono enormi. Si assiste, per esempio, a un rovesciamento della piramide demografica, che avrà inevitabili ripercussioni sul sistema pensionistico».
Recentemente, è stata proposta l’introduzione del “minimo vitale”, cioè di un reddito minimo garantito per contrastare la povertà. «Questa può essere una soluzione – ammette Campiglio -, ma non bisogna dimenticare che un reddito minimo sarebbe di difficile individuazione, dato il differente costo della vita tra le diverse città italiane». Ma il problema principale di questa misura è che «risponde senz’altro al problema della povertà in senso stretto, ma non è detto che risolva il problema delle famiglie: una politica per la povertà è infatti diversa da una politica per la famiglia e per ogni obiettivo occorre uno specifico strumento. In Italia è stato sempre usato lo strumento monetario in maniera avara e indifferenziata, senza che fosse concentrato su un obiettivo. Nel nostro paese si potrebbero introdurre anche politiche per l’equità orizzontale, prevedendo, per esempio, un trattamento fiscale differente tra una famiglia con cinque figli e una più piccola». In sintesi, «bisognerebbe dotarsi di più strumenti e tra questi vorrei ricordare il quoziente familiare, che permetterebbe di determinare l’imponibile fiscale in base al numero dei componenti di una famiglia».
Nel frattempo, a cercare di alleviare il problema della povertà ci sono le opere di carità. «La cosa più impressionante – afferma Campiglio – è che questo tipo di attività è maggiormente presente in un paese che siamo soliti definire l’emblema del liberismo, cioè gli Stati Uniti. In Italia, abbiamo, per esempio, l’esperienza del Banco Alimentare che è molto positiva e buona, ma che ha incontrato un grosso vuoto istituzionale». «Certo è – conclude Campiglio – che la carità aiuta, ma servono dei programmi». In attesa che questi arrivino, meglio – come si dice – affidarsi alla carità.
Tradizionalmente per arrivare a individuare questo tipo di dati si usano due metodi: quello della povertà relativa e quello della povertà assoluta. Il primo «utilizza come base di misurazione – spiega Campiglio – la spesa media mensile per persona e le famiglie di due persone che hanno una spesa media mensile pari o inferiore a tale valore sono considerate povere». Secondo tale misurazione, «più dell’11% delle famiglie italiane vive in condizioni di povertà relativa». Per quanto concerne la povertà assoluta, «si individua – chiarisce ancora Campiglio – un paniere minimo di sussistenza, andando a misurare poi quanti sono in grado di accedervi economicamente. Si tratta di una misurazione molto problematica, dato che il livello dei prezzi cambia di molto, per esempio, tra una città del Nord e una del Sud. Ed è per questo che non esistono dati recenti di questo tipo».
Ma al di là di queste due metodologie, «esistono – dice Campiglio – dei dati dell’Istat poco citati che sono molto utili, perché danno informazioni sui comportamenti reali delle famiglie italiane». Si tratta dei dati dell’indagine sul reddito e le condizioni economiche in Italia riferita al 2005 e basata su interviste. «Scorrendo le cifre, si scopre che il 14,7% delle famiglie italiane ha dichiarato di “arrivare a fine mese con molta difficoltà” e, cosa più preoccupante, che il 5,8% non è stato in grado di acquistare generi alimentari». «È un dato preoccupante, perché stiamo parlando del livello necessario alla propria sussistenza».
Nonostante la diversità delle percentuali tra i diversi metodi di misurazione, «essi convergono – prosegue Campiglio – nell’individuare i gruppi sociali più esposti al “rischio povertà” e danno indicazioni robuste su un forte disagio economico presente nel nostro paese». Ma chi è più esposto a questo problema? «I dati dicono che se una persona – spiega Campiglio – potesse scegliere a tavolino la condizione sociale per garantirsi dal rischio della povertà, dovrebbe percepire un reddito, vivere in coppia con un’altra persona che lavora e non avere bambini. Con l’aumentare dei figli, infatti, aumentano le situazioni di rischio».
Per combattere la povertà nel nostro paese servirebbero quindi politiche per la famiglia, in particolare per quelle con figli. «Purtroppo bisogna constatare – sottolinea Campiglio – che in Italia questi soggetti non sono “politicamente interessanti”: c’è una colpevole trascuratezza del mondo politico nei confronti delle famiglie. Le conseguenze di questa negligenza sono enormi. Si assiste, per esempio, a un rovesciamento della piramide demografica, che avrà inevitabili ripercussioni sul sistema pensionistico».
Recentemente, è stata proposta l’introduzione del “minimo vitale”, cioè di un reddito minimo garantito per contrastare la povertà. «Questa può essere una soluzione – ammette Campiglio -, ma non bisogna dimenticare che un reddito minimo sarebbe di difficile individuazione, dato il differente costo della vita tra le diverse città italiane». Ma il problema principale di questa misura è che «risponde senz’altro al problema della povertà in senso stretto, ma non è detto che risolva il problema delle famiglie: una politica per la povertà è infatti diversa da una politica per la famiglia e per ogni obiettivo occorre uno specifico strumento. In Italia è stato sempre usato lo strumento monetario in maniera avara e indifferenziata, senza che fosse concentrato su un obiettivo. Nel nostro paese si potrebbero introdurre anche politiche per l’equità orizzontale, prevedendo, per esempio, un trattamento fiscale differente tra una famiglia con cinque figli e una più piccola». In sintesi, «bisognerebbe dotarsi di più strumenti e tra questi vorrei ricordare il quoziente familiare, che permetterebbe di determinare l’imponibile fiscale in base al numero dei componenti di una famiglia».
Nel frattempo, a cercare di alleviare il problema della povertà ci sono le opere di carità. «La cosa più impressionante – afferma Campiglio – è che questo tipo di attività è maggiormente presente in un paese che siamo soliti definire l’emblema del liberismo, cioè gli Stati Uniti. In Italia, abbiamo, per esempio, l’esperienza del Banco Alimentare che è molto positiva e buona, ma che ha incontrato un grosso vuoto istituzionale». «Certo è – conclude Campiglio – che la carità aiuta, ma servono dei programmi». In attesa che questi arrivino, meglio – come si dice – affidarsi alla carità.