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Home » Lavoro » IL CASO/ 2. La “divisione” che può portare più lavoro in Italia

  • Lavoro

IL CASO/ 2. La “divisione” che può portare più lavoro in Italia

Luca Solari
Pubblicato 15 Dicembre 2011
Operaio_Avvita_IndesitR400

Foto Imagoeconomica

Il Governo Monti ha mosso i suoi primi passi in un contesto politico e sociale dominato dall’urgenza economica. Ed è chiamato a intervenire anche sul lavoro. L’analisi di LUCA SOLARI

Il Governo Monti ha mosso i suoi primi passi in un contesto politico e sociale dominato dall’urgenza economica. La logica conseguenza della malattia appare chiamare lo specialista, vista la fase acuta, ma sapremo comprendere che serve in realtà un cambio radicale di prospettiva, un vero lavoro di team, come spesso accade nella sanità di successo? In più occasioni, negli ultimi anni, ho avuto l’occasione di commentare i dati o riflettere sulla relazione tra il mondo del lavoro e l’impresa e il denominatore comune è stato il richiamo all’assenza dal dibattito di ciò su cui questa relazione si fonda, ovvero il riconoscimento del necessario primato dello specifico sul generale.


Contributi praticanti commercialisti/ Il versamento non va al fondo CNPADC


Troppo spesso il lavoro e l’impresa sono nelle parole degli esperti dei concetti astratti, meglio adatti a modelli economici generali di equilibrio che a grandi forze di generazione di sviluppo e crescita economica e sociale, quindi personale e civile. L’improbo compito della politica rispetto alla crescita è stato ridotto all’ideazione di ricette universali da trasferire in codici e norme, invece che riconoscere che l’architettura delle norme conta molto meno della capacità di progettare processi e coinvolgere gli attori definendo regole di relazione, più che norme di comportamento.


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Anche in una recente ricerca coordinata dal mio team per l’Osservatorio di Farmindustria sul progetto Welfarma (una struttura contrattuale a supporto dei processi di riqualificazione e outplacement) ha evidenziato come il problema non siano i dispositivi, ma la reale dinamica tra gli attori e la presa in carico delle rispettive responsabilità. La sussidiarietà, si direbbe in questo contesto, non è un dato: è una conquista delle parti che si assumono responsabilità condivise e si sforzano per trovare il modo di collaborare. Ma la sussidiarietà non si crea solo con sistemi esterni di incentivazione, come pensano molti regolatori. Non è un caso che le esperienze migliori si verifichino dove pre-esiste una struttura sociale che ha costruito processi; la regolazione e gli incentivi in questi casi non fanno che rafforzare e creare un circuito virtuoso.


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Ecco allora che a mio avviso la grande sfida culturale di questo Governo è riprendere a costruire dal basso, invece che disegnare dall’alto. Mi piace pensare simbolicamente che le immagini in tono minore di un possibile Primo ministro con il suo trolley in aeroporto facciano risuonare un atteggiamento pragmatico, modesto, basato sull’urgenza della gestione della vita di tutti i giorni di milioni di italiani. Nel mondo del lavoro e dell’impresa, questo significa certo rivedere il modello dell’impiego (troppo) garantito di alcuni rispetto ad altri, ma anche diffondere modelli di relazione partecipativi, dove la partecipazione non sia concessione, ma responsabilità.

Ci sono numerosi fronti da aprire. In primo luogo, è urgente ridefinire le responsabilità anche delle imprese sulla qualificazione del capitale umano che è spesso un’esternalità positiva che viene investita in processi specifici che lo consumano. Il lavoratore obsoleto, perché per vent’anni ha coperto un processo specializzato e senza futuro, non può prendere anche la croce della sua riqualificazione e non può essere scaricato sulla società, ma deve diventare parte della responsabilità sul capitale umano di chi lo ha utilizzato su un processo senza futuro. Le risorse si possono trovare in un completo ripensamento del sistema degli ammortizzatori sociali, unito in un’azione decisa di riforma del sistema della formazione finanziata, oggi preda di burocratizzazione e formalismo.

In secondo luogo, si deve riconoscere che la produttività non è un problema di costo del lavoro, ma di investimenti tecnologici uniti al ripensamento dei modelli di organizzazione del lavoro. In tutte le ricerche, emerge come l’Italia sia in pesante ritardo sulla diffusione di modelli di lavoro a elevate performance, modelli che hanno dimostrato di poter rivitalizzare anche settori maturi come il tessile in contesti pur a elevato costo del lavoro, rendendoli competitivi con i produttori asiatici. Fare questo richiede il coraggio di differenziare le scelte macroeconomiche, affidate a economisti generali, da quelle di impresa dove servono competenze industriali e di management di impresa.

I modelli esistono, le ricerche pure, è ora che vi siano decisori competenti.


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