Caro direttore,
È ricorrente, mai come in questi ultimi tempi, leggere, ascoltare e sentire amici e clienti che ai tavoli discutono di questo argomento: i giovani non trovano lavoro, cosa faranno?
Per affrontare il tema, purtroppo, bisogna da subito dire le cose come stanno. Potremmo partire da vecchi giudizi ed esperienze passate, ma la realtà è molto dura: i giovani, spesso, non hanno voglia di lavorare, non vogliono fare sacrifici, non hanno passione, non vogliono imparare. Hanno già tutto, molto più delle vecchie generazioni. Forse non sanno più come raggiungere una felicità. Sommano giornate di malattia come fossero sessantenni pieni di acciacchi e il loro costo è di poco differente da chi ha gia esperienza.
Se è vero, come è vero, che il 70% degli italiani è proprietario della propria casa, ecco che già una piccola risposta alla domanda iniziale c’è: i nostri giovani non dovranno neanche fare la fatica di accollarsi un mutuo, come abbiamo fatto noi in passato, perché la casa se la ritroveranno in eredità, così come, in alcuni casi, anche l’azienda dei genitori. Pesanti questi giudizi? No, non credo, anzi probabilmente molti ristoratori e piccoli imprenditori sanno di cosa sto parlando. Credo di poter affermare che è a rischio la continuità del nostro lavoro.
Le Scuole professionali e non cosa fanno? Purtroppo non hanno mezzi per aggiornare la tecnologia delle proprie cucine e dei laboratori, forse non hanno soldi a sufficienza per avere consulenti/docenti di alto livello, non riescono a collegarsi con il mondo del lavoro, mandano i propri ragazzi a fare stage in grandi alberghi, sulle navi, nelle pizzerie.
Ora, pur avendo grande stima di queste categorie di colleghi, è chiaro che la ristorazione di qualità ha altri problemi e non posso nascondere piccole confessioni di docenti di scuole alberghiere: mandare i ragazzi in stage nei ristoranti di qualità comporta dei problemi, poiché normalmente il titolare è anche Chef e il rapporto coi ragazzi è immediatamente conflittuale.
“Togliti l’orecchino, togliti il piercing, togliti il braccialetto, non usare il telefonino”, sono le regole di igiene e i comportamenti richiesti ai ragazzi. Sapete qual è la loro risposta? “Ma quanto rompi, neanche a casa i miei mi dicono così”. Risultato, come da personale esperienza di due mesi fa, lo stagista di una scuola di Monza ha voluto farsi trasferire in un ristorante/pizzeria, “perché li fa quello che vuole e nessuno lo controlla”, mi ha confidato il docente. Tutto questo avviene anche nelle Pmi: giovani ingegneri senza esperienza che chiedono da subito qual è il percorso della propria carriera. O quando si fanno le ferie.
La parola brigata, cioè brigata di cucina, ha un significato preciso, deriva esattamente dal termine militare, perché in una cucina il metodo è o dovrebbe essere militare: compiti e comportamenti precisi, gerarchia, rispetto e ubbidienza, esattamente da brigata militare. Tutti sanno che oggi è praticamente impossibile questo metodo, applicato solo nei grandi alberghi o sulle navi da crociera che sono territori extranazionali, ma il nostro settore ha circa 100.000 ristoranti: come faremo? Senza contare gli artigiani…
Qualche settimana fa, un mio cliente, che fa il sarto – incredibile ma esistono ancora – mi confidava che ha dovuto trasferire in Canton Ticino il laboratorio, perché qui non trova più collaboratori. Forse abbiamo sbagliato percorso o forse come dice Lino Stoppani, presidente della Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi), non siamo più bravi allenatori. Ma come si fa a insegnare quando l’umiltà è scomparsa?
Io sono un meridionale arrivato a Milano 43 anni fa: altri tempi, qualcuno dirà. Milano ha dato tanto, non solo a me: abbiamo lavorato tanto, si lavorava di giorno e si studiava la sera, sabato e festività comprese. Ferie poche, stipendi bassi, ma tanta voglia di arrivare e di emergere. In molti ci siamo riusciti. Come facciamo a far capire che oggi è ancora così, che servono sacrificio e passione, ma anche e soprattutto fedeltà aziendale? Una parola difficile, un valore vero da insegnare oggi che arrivano giovani con curricula lunghi, dato che ogni sei mesi hanno cambiato lavoro, senza imparare nulla.
Il nostro è un lavoro che dobbiamo fare anche quando gli altri si riposano o si divertono, ma in fondo questo è il Turismo, ed è questo è il vero problema: non siamo più in grado di trasmettere che il Turismo è un valore per il nostro Paese, con una ricchezza culturale che pochi nel mondo hanno. Il nostro è un lavoro che può dare ancora tanto, ma che richiede passione: invece il giovane intravede in questa attività la modalità di un posto come gli altri, ed ecco allora che lavorare il sabato, la domenica, nelle festività diventa un ostacolo.
Tanti cercano il posto, pochi il lavoro. Vediamo gruppi di giovani “pascolare” nei centri commerciali, attaccati al telefonino, magari bigiando la scuola. Non voglio sostituirmi alle famiglie, ma proprio qui è il problema: che cultura trasmettono le famiglie? Anzi, dove sono finite? Come faremo a far capire che il lavoro non solo è uno strumento per star bene, ma è anche un valore nella vita?