“Buon lavoro” è l’augurio che spesso ci si scambia all’inizio di una giornata lavorativa o che si rivolge a chi intraprende un nuovo impiego o un nuovo incarico. Ma quello di fare un buon lavoro è altresì un precetto, anzi il precetto in cui si riassume tutta la responsabilità della persona verso il lavoro.
Infatti, la prima e fondamentale manifestazione di tensione etica nella vita professionale è l’impegno assiduo di ciascuno a svolgere sempre meglio il proprio lavoro e ciò richiede essenzialmente professionalità e passione. Il problema è identificare i criteri per definire un “buon lavoro”.
Per fare un “buon lavoro” bisogna anzitutto applicarsi con impegno e professionalità nello svolgimento dei propri compiti tendendo all’eccellenza, cercando continuamente di migliorare la qualità della prestazione. Possiamo essere animati dalle migliori intenzioni, ma se non abbiamo e non coltiviamo le necessarie competenze professionali, i risultati non possono che essere deludenti, per noi e per il destinatario della nostra prestazione, sia esso un cliente interno o il cliente finale.
Ma per coltivare le competenze professionali occorrenti e per tendere all’eccellenza nello svolgimento del lavoro, occorre una forte motivazione che nasce da passione per il proprio lavoro, che si manifesta nella carica di energia positiva, di slancio e di entusiasmo contagioso che ciascuno porta nel lavoro. La passione per il lavoro alimenta con continuità la tensione alla ricerca dell’eccellenza della prestazione, motiva a un continuo apprendimento dall’esperienza e all’aggiornamento professionale e, a sua volta, si nutre della soddisfazione che dà il lavoro fatto bene, disegnando così un circuito virtuoso.
La responsabilità verso il lavoro è però anche contribuire al “bene comune”, ovvero migliorare la qualità del contesto umano e organizzativo in cui si lavora, nonché la qualità dei rapporti con gli interlocutori esterni all’ambiente di lavoro, contribuendo a produrre, insieme alle prestazioni contrattualmente stabilite, un “bene” di inestimabile valore, rappresentato dalla qualità delle relazioni che si stabiliscono con le persone con cui si interagisce nella vita di lavoro.
Questo bene, che, proprio in quanto bene relazionale, può essere prodotto e goduto solo dalle persone che si incontrano a motivo del loro lavoro, contribuisce all’interno dell’azienda a “fare comunità di lavoro” e all’esterno alimenta i valori della fiducia, lealtà, trasparenza, rispetto e stima vicendevole nei rapporti di collaborazione con fornitori, distributori, concorrenti.
Naturalmente, l’impegno a produrre questo bene richiede di accostarsi al lavoro con un atteggiamento fatto di grande attenzione non solo al compito da svolgere, ma anche alle persone con cui si interagisce, ossia alle loro esigenze e aspirazioni. Queste, nel caso dei rapporti con i collaboratori, possono essere esigenze di ascolto, coinvolgimento, valorizzazione, supporto tecnico e sostegno emotivo.
Fare un “buon lavoro” deve inoltre esplicarsi in una continua e lungimirante ricerca di ciò che contribuisce al “bene dell’azienda”, ossia a fare dell’azienda in cui si opera un’organizzazione efficiente, competitiva, disciplinata e innovativa allo stesso tempo, capace di mantenersi vitale e di rispondere nel migliore dei modi alle attese dei suoi molteplici interlocutori.
Ciò significa, in generale, darsi carico del bene dell’azienda, cioè prendere l’iniziativa, nei limiti delle proprie possibilità e opportunità di interazione, nei gruppi di lavoro di cui si fa parte, nelle riunioni sindacali, nei contatti con il management, negli incontri informali, per promuovere responsabilmente il bene dell’azienda, come bene sovraordinato rispetto ai diversi interessi particolari e che tutti comprende e armonizza facendo dell’azienda e del suo successo duraturo un bene pubblico.
Si tratta di elementi strettamente tra di loro collegati: nella misura in cui la prestazione individuale si svolge con altre persone e/o per altre persone, è evidente che qualità della prestazione e qualità delle relazioni interpersonali nella vita di lavoro sono variabili interagenti. Tali variabili poi non sono indipendenti dalla tensione o meno a cercare il bene dell’azienda sia perché è chiaramente nell’interesse aziendale che ciascuno cerchi di svolgere al meglio il proprio lavoro in un clima di buone relazioni, sia perché è plausibile che il bene dell’azienda stia a cuore a chi, con passione e professionalità, si impegna nel suo lavoro, sia, infine perché il bene dell’azienda, la realizzazione piena della sua missione produttiva, la funzionalità e lo sviluppo della stessa costituiscono lo scopo che deve, o meglio dovrebbe, indirizzare tutte le attività lavorative.
Il collegamento poi diventa tanto più stretto quanto più si sale nella strada delle responsabilità, sino a formare dei tre elementi un tutt’uno inscindibile per chi sta al vertice della piramide organizzativa. Come sarebbe possibile, infatti, per un amministratore delegato tendere all’eccellenza nello svolgimento del suo compito di capo azienda senza darsi cura di creare un ambiente di lavoro sereno, in cui ognuno possa dare il meglio di sé; senza adoperarsi per costruire solide relazioni di fiducia con gli interlocutori chiave all’esterno dell’impresa e senza cercare incessantemente e al di sopra di tutto il bene dell’azienda di cui è responsabile, chiamando tutti a cooperare in tal senso e dando lui stesso per primo il buon esempio?
L’accogliere il lavoro come un bene che ci è donato – e non come un giogo a cui di necessità sottostare lavorando in modo eccessivo (o addirittura diventandone schiavi) o il meno possibile (coltivando magari il miraggio del “posto di lavoro” senza impegno alcuno di lavorare) – ci fa entrare nell’atteggiamento giusto per arrivare a scoprire il senso della nostra responsabilità verso il lavoro.
Questa competence attitude nella qualità dell’orientamento al lavoro sta diventando sempre di più criterio di scelta nella selezione dei managers in ruoli di responsabilità, insieme a quella capacità di imparare, prontezza, vivacità intellettuale o pensiero flessibile (crf. F. Sansone, Il Pensiero flessibile, Franco Angeli, 2008, II edizione) per la creazione di valore nelle imprese nella knowledge economy.