Aziende in crisi, non è una novità di questi tempi. E quando arriva la crisi, spesso il primo provvedimento che si prende è lasciare a casa parte dei dipendenti, cioè licenziarli o metterli in cassa integrazione. Quello che però è successo in una fabbrica di Inzago, in provincia di Milano, la Ma-Vib, è probabilmente inedito. I responsabili della piccola fabbrica (trenta operai in tutto, dodici uomini e diciotto donne) infatti hanno deciso sì di ridurre il personale per far fronte alla difficile situazione, ma lasciando a casa solo gli operai di sesso femminile. Una decisione che avrebbe scatenato le ire più ribollenti delle vecchie femministe di una volta, ma che comunque sta facendo scalpore. Anche perché il comportamento dei loro colleghi maschi non è stato esattamente quello che si potrebbe dire da gentiluomini…
La Ma-Vib è una azienda che produce elettrodomestici ed elettronica varia, soprattutto motori elettrici per impianti di condizionamento, con sede a Inzago. Una piccola azienda a conduzione familiare, attiva da circa 25 anni. Già dieci mesi fa l’azienda era stata costretta a mettere in cassa integrazione ordinaria quattordici dipendenti. Tredici erano donne, uno solo era uomo. A qualcuno, vista la disparità numerica tra i sessi, avrebbe dovuto suonare un campanellino d’allarme. Dieci mesi dopo la situazione è peggiorata, tanto che la Ma-Vib decide di passare direttamente ai licenziamenti. Quando le parti sociali (sindacati, associazioni di categoria e proprietà) si trovano al tavolo per l’aggiornamento sulla situazione, ecco la lettura di un comunicato che lascia tutti di stucco.Dice infatti la proprietà dell’azienda che rimarranno a casa tra i dieci e i tredici dipendenti. Tutti donne. Sembra uno scherzo, ma la direzione aziendale ha anche le motivazioni da esporre: “Sono state scelte le donne perché potranno stare a casa a curare i loro bambini e quello che portavano a casa era comunque il secondo stipendio”. Ira dei sindacati e incontro immediatamente sospeso.
La Ma-Vib tenta una sola replica, dicendo che la cassa integrazione e adesso i licenziamenti sono stati imposti da “ragioni oggettive”: Nessun accenno al caso donne. I titolari (nonno, padre e nipote) non rilasciano commenti e rimangono chiusi nei loro uffici. Ma la Fiom, il sindacato che segue la situazione, è sul piede di guerra. Non solo, intervengono anche rappresentanti della scena politica. Per il consigliere regionale Giulio Cavalli si tratta di una decisione sessista che nel mondo del lavoro non deve trovare spazio. “Le motivazioni addotte alla base dell’interruzione del rapporto lavorativo non sono disattenzioni, ma scelte consapevoli che relegano le donne al ruolo di massaie e casalinghe che, per hobby, decidono di lavorare. Questo atteggiamento non è solo un insulto di stampo medioevale, ma anche un preoccupante segnale di discriminazione sociale” aggiunge il politico. Gli fa eco l’assessore provinciale alle Pari opportunità Cristina Stancari: “Un’azione gravissima che denota una totale mancanza di rispetto e discriminazione nei confronti delle donne. Un ritorno al passato che non può essere tollerato e giustificato in alcun modo”.
Intanto, d’accordo con i sindacati, ieri i dipendenti dell’azienda avevano deciso lo sciopero generale, come sempre in questi casi. Tutti, licenziati e non, uomini e donne, si erano dichiarati d’accordo e pronti alla protesta. Ma stamattina, al momento di presentarsi davanti ai cancelli per dare inizio alle proteste, la sorpesa. E’ accaduto un piccolo fatto che fa sorgere qualche dubbio sul livello di solidarietà degli operai maschi della fabbrica. Un senso del femminismo decisamente mancante. Con grande sorpresa dei presenti, fuori dei cancelli sono rimasti solo i licenziati, cioè le donne. Gli uomini? Hanno preferito varcare le soglie e prendere normalmente il loro posto di lavoro. Che diranno adesso i sindacati?