Caro direttore,
il ministro Elsa Fornero ha invitato i giovani in cerca di impiego dopo il diploma o la laurea a rassegnarsi ed accettare quello che il mercato del lavoro offre loro per primo. Mettere da parte le proprie aspirazioni, tagliare le ali al desiderio e portare a casa ciò che si trova. Senza sminuire la portata dell’attuale crisi finanziaria ed economica e delle sue implicazioni sulla domanda e sull’offerta di lavoro, una simile, sorprendente esternazione tradisce un’incomprensione della questione umana del lavoro e della consistenza del cuore dei giovani, uno “strappo” del loro cuore.
Cercando lavoro, ognuno cerca non solo (e non tanto) un’occasione per guadagnare uno stipendio e vivere dignitosamente dell’opera della propria mente e delle proprie mani, ma un’opportunità per realizzare nella vita quello che desidera, ciò che è capace di incarnare un ideale concreto, di proiettare sulla realtà un’immagine di sé e del mondo di cui portiamo la coscienza. L’uomo realizza il lavoro proprio perché il lavoro realizza l’uomo.
E se vi è un’età della vita in cui tutto sembra essere teso a una simile realizzazione, questa è la giovinezza. Anche quando alcuni giovani sembrano ricercare il denaro, il successo o il potere, cercano in questo o attraverso di questo la felicità, la gioia di vivere, il gusto del bello, del vero e del buono. Vogliono vivere all’altezza del desiderio del loro cuore, anche se spesso fanno fatica – per una debolezza della coscienza di sé, frutto di una carenza educativa – a riconoscere una via concreta per realizzare questo desiderio nella propria storia, unica e irripetibile, ricca di talenti e carica del limite di cui ognuno è portatore. Un desiderio irriducibile e incontenibile è il dono più prezioso che Dio ha dato all’uomo e che spalanca e orienta la sua libertà verso l’infinito. Il desiderio di una cosa finita, come un tipo di lavoro congeniale a sé, è segno del desiderio infinito di vivere, ciò che di più caro alberga nel cuore di un giovane (solitamente in modo più palese che non in molti adulti).
Questo ai giovani non può essere strappato: il desiderio del loro cuore.
E ognuno di essi, quando riconosce quel complesso di evidenze ed esigenze che costituisce il suo cuore come decisivo per la propria vita, non si arrende di fronte a nessuna circostanza. Neppure a quella amara e insopportabile, vigliacca come il tradimento di un’attesa cresciuta nel tempo all’ombra promettente dello studio: un lavoro che non c’è o non ti corrisponde. I giovani non possono gettare le armi del desiderio di cui è impastato lo sguardo su loro stessi, sulla persona amata, la famiglia e gli amici, sul mondo, che costituisce la trama di ogni rapporto e l’ordito di ogni mossa della loro libertà: che tutto concorra al proprio destino, alla bellezza, alla verità e al bene di cui ha sete l’animo umano. L’animo di tutti noi, ma con maggiore freschezza e baldanza quello dei giovani se è stato coltivato, educato negli anni della scuola e dell’università attraverso l’incontro con figure adulte, uomini e donne di statura umana, testimoni più che maestri e maestri perché testimoni di ciò che veramente conta nella vita. Quello che vale, senza il quale tutto il resto diventa banale, anche il posto di lavoro.
A giovani così – e nei quarant’anni che ho trascorso in università ho avuto la grazia di incontrarne moltissimi, che hanno riempito di passione e di speranza la fatica e la gioia del mio quotidiano impegno in ateneo – noi non possiamo chiedere di accontentarsi di ciò per cui non sono fatti, di spegnere la tensione alla realizzazione del proprio io attraverso l’opera della vita, il lavoro come l’espressione compiuta della persona, come “vocazione”. Vocazione, «perché il lavoro – ricordava don Luigi Giussani nel 1998 – è la forma espressiva della personalità umana, del rapporto che l’uomo ha con Dio». Con Dio, cioè con tutto.
È la crisi ad avere rubato ai giovani il futuro? No. La crisi è la circostanza, dura come un sasso ma non infeconda, che è data a loro (e a noi) per maturare, approfondire la consapevolezza di quello che uno sta veramente cercando nella vita. Quando il pane è sulla tavola, nessuno ha fame. La fame viene quando il pane manca. La crisi farà venire più fame, costringerà a non accontentarsi di quello che abbiamo per essere felici.
Il futuro ai giovani lo rubano gli adulti che non li guardano con simpatia e ammirazione per l’esuberanza del loro cuore, che non stimano la tensione al compimento di sé che trabocca dalla loro vita (qualche volta in modo irruento, disordinato, ribelle, ma pur sempre tracimante di bellezza e di freschezza), gli adulti paghi del loro piccolo potere e che se ne fregano del bene comune, gli adulti che fanno resistenza all’ingresso di nuove leve negli ambienti di lavoro, gli adulti che non sono disposti a passare il testimone alla generazione successiva.
Le porte del futuro non le chiuderà davanti ai giovani la congiuntura finanziaria ed economica dell’Occidente, ma coloro che stanno immobili, seduti a dirigere i figli che loro stessi hanno generato ma non educato, gli allievi che hanno istruito ma non formato, i giovani cittadini che hanno dominato ma non servito, anziché alzarsi e camminare insieme a loro, fianco a fianco, lasciandosi guidare dalle autentiche passioni per la vita che attraversano il loro cuore e proiettano la loro intelligenza, la loro creatività oltre l’ostacolo, con la irriducibile tenacia che nasce dalla consapevolezza del proprio io, dalla coscienza della grandezza del proprio destino.
Come possiamo restituire certezza ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro, consegnare loro un lasciapassare per l’oggi e per il domani? Di sicuro, possiamo (e dobbiamo) chiedere loro di essere realisti, non sognatori. Di fare i conti con la circostanza che attraversa l’Italia e l’Europa, senza sconti o illusioni. Ma si può davvero essere realisti solo se si è leali con il proprio cuore, se non si censura ciò per cui siamo fatti e di cui siamo fatti.
E i giovani sentono di non essere fatti per accontentarsi, e hanno ragione. La loro è una stagione della vita che spalanca al mondo (anzitutto quello del lavoro, degli affetti, della vocazione, della famiglia, della società): le opportunità che frequentemente offriamo ai giovani – nel nostro Paese più che in altri – sono anguste, di corto respiro, frutto più di un calcolo conservatore e miope che di uno slancio in avanti, verso il futuro.
Se non gettiamo lo sguardo oltre la «siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» (Leopardi) non potremo offrire ai giovani e a noi stessi una ragione adeguata per lavorare, senza la quale svanisce quella passione, quel gusto creativo del lavoro che solo può rimettere in movimento la vita delle persone e della società. Per ricominciare, attraverso la crisi (facendo di essa una provocazione, non un’obiezione), a crescere noi e far crescere i nostri figli.