Meno di 24 ore fa l’Istat ha reso pubblica la sua rilevazione mensile circa l’occupazione e la disoccupazione relativa al mese di giugno. Abbiamo visto che c’è un leggero calo dell’occupazione rispetto al mese di maggio (-0,1%, ovvero -29mila unità), che riguarda in particolare le donne. Il tasso di disoccupazione si attesta al 10,8%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto a maggio e di 2,7 punti rispetto all’anno precedente. Si tratta di un record storico, il livello più alto dall’inizio delle serie mensili (gennaio 2004) e delle trimestrali (quarto trimestre 1992). Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 34,3%, in calo di 1 punto percentuale rispetto a maggio. I giovani disoccupati rappresentano il 10,1% della popolazione di questa fascia di età.
Abbiamo chiesto a Michele Tiraboschi, Professore Ordinario di Diritto del lavoro, nonché Presidente di Adapt (Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del lavoro e sulle Relazioni industriali), un parere sulla situazione, soprattutto alla luce dell’entrata in vigore, dal 18 luglio, della riforma Fornero, per capire in quale misura potrà esserci un’evoluzione positiva del lavoro e dell’occupazione. «Il dato Istat pubblicato ieri è preoccupante – dice l’allievo di Marco Biagi. Anche il timido segnale positivo della disoccupazione giovanile è da ascriversi all’inizio delle attività stagionali, più che a cambiamenti strutturali. Non si faccia però l’errore di “metterlo sul conto” della recente riforma del lavoro: è ancora presto. La ragione di un indice così negativo è certamente la crisi economica, che le nostre imprese stanno sentendo eccome. Per questo mi preoccupa, in prospettiva, l’effetto che la legge 92 può avere sull’economia reale: in un periodo già difficile rischia di diventare un ulteriore fonte di insicurezza. È quindi importante che quel sistema di monitoraggio e valutazione descritto all’articolo 1 della legge sia davvero operativo e permetta ai decisori politici di correggere le misure disincentivanti la creazione di posti di lavoro».
In rapporto ai giovani, in che misura ha senso rilevare le criticità del mercato in termini di disoccupazione soprattutto? Quali altri parametri possono essere degli importanti indicatori?
L’Ilo e gli studiosi di mercato del lavoro hanno sempre considerato il mercato del lavoro giovanile un mercato del lavoro a sé stante, non valutabile con gli stessi indicatori del lavoro degli “adulti”. Per questo, quando si parla di giovani, più che guardare al tasso di disoccupazione (status tipico e frequente di chi sta cercando la migliore collocazione nel mercato del lavoro), è bene guardare ad altri indici, come il tasso di inattività o il differenziale di disoccupazione tra giovani e adulti o, ancora, la disoccupazione di lunga durata.
L’irrigidimento della flessibilità in entrata pare privilegiare indirettamente l’utilizzo della somministrazione, la stessa somministrazione di apprendistato è stata molto semplificata. Il mercato del lavoro italiano sarà più inclusivo per i giovani?
Aprire all’apprendistato anche in somministrazione è un segnale certamente importante: positivo è stato l’emendamento in questo senso. A ogni modo, la quota di mercato del lavoro “coperta” dalle Agenzie per il lavoro (Apl) è ancora troppo bassa perché si possa parlare di maggiore inclusività per i giovani. Purtroppo ci sono anche tante altre novità, nella riforma Fornero, che vanno in senso contrario. Per esempio, proprio lo stesso irrigidimento della flessibilità in entrata che lei stesso cita.
La valorizzazione della somministrazione è un riconoscimento del ruolo delle Apl come attori sociali all’interno del mercato del lavoro?
Le Apl sono indubbiamente un attore importante del mercato del lavoro. Lo sono già dal 1997 e la legge Biagi le ha messe al centro delle politiche attive. Invero ora si sta facendo un piccolo passo indietro, non in avanti, con la legge 92. È una nuova sfida per il settore, ormai entrato nella sua stagione adulta.
Dopo l’approvazione del testo al Senato (31 maggio 2012) lei scriveva che, in caso di conferma alla Camera, la legge avrebbe finito con il cancellare buona parte del pensiero riformatore di Marco Biagi. È ancora di quest’idea?
Il punto non sono le singole misure intraprese. Anche, ovviamente. Ma il limite più evidente della legge resta quello di ritenere necessario il cambiamento in ragione delle “esigenze dettate dal mutato contesto di riferimento”, senza però saperlo interpretare fino in fondo, limitandosi a riproporre uno schema di giuridificazione dei rapporti di lavoro, quello del lavoro subordinato a tempo indeterminato, tipico del secolo scorso. La riforma è concettualmente sbagliata perché si fonda sull’irragionevole convinzione di poter ingabbiare la multiforme e sempre più diversificata realtà dei moderni modi di lavorare e produrre in un unico (o prevalente) schema formale, quello del lavoro subordinato a tempo. Il risultato sarà, quantomeno nel breve/medio periodo, minore occupazione.
Come valuta l’impostazione originaria di questa legge?
L’impostazione originaria è stata ben poco scalfita dal processo di formazione della legge. È quella detta sopra: la legge Biagi volle difendere il lavoratore nella flessibilità; qui si torna indietro di dieci anni, cercando di difenderlo dalla flessibilità, nella convinzione che questa sia esito e nelle disponibilità di un intervento normativo.
Quanto la concertazione ha influito nell’iter legislativo del ddl e come valuta l’apporto della parti sociali?
Parlamento e parti sociali sono riuscite a correggere le storture più evidenti del primo testo. Questo anche perché si è registrato un raro caso di unanime dissenso al progetto di legge, che trovava il suo equilibrio politico, paradossalmente, proprio nello scontentare tutti. Non parlerei comunque di concertazione, né, tanto meno, di dialogo sociale. Ritengo significativo, invece, che già dopo una settimana dall’entrata in vigore della legge siano stati approvati dieci emendamenti condivisi da Pd e Pdl (caso, anch’esso, raro) e sia stato pubblicato un corposo intervento interpretativo dello stesso Ministero per il tramite della circolare 18.
Cosa pensa dei cambiamenti rispetto alla flessibilità in uscita?
Una così pesante lotta senza quartiere verso le forme di lavoro flessibile avrebbe avuto bisogno di un contrappeso riformatore anche sulla cosiddetta rigidità in uscita. Invero si è scelta una soluzione di mezzo che porrà non pochi problemi interpretativi. Lavoratori e imprese hanno oggi bisogno di un quadro di regole semplici, sostanziali più che formali, accettate e rispettate. Il nuovo articolo 18 è lungo tre volte tanto il precedente…
Come vede le novità introdotte relativamente alle politiche attive?
Gli interventi sulle politiche attive contenuti nella riforma sono ragionevoli e, in buona parte, coerenti con la legislazione precedente. Ma sono pochi. Non è certamente una legge che guarda alle politiche attive, sia per l’impostazione complessiva del testo, che si è voluto incentrato su altro, sia per i noti problemi di bilancio dello Stato.
E agli ammortizzatori sociali?
L’Aspi, nella sua intenzione di universalità e impostazione a base assicurativa, va nella giusta direzione. Il problema è che viene approvata in un momento storico/economico difficilissimo, nel quale ogni aumento di costo per le imprese può incidere sulla loro sopravvivenza. Si è perso, invece, quel favore verso la bilateralità anche nel campo degli ammortizzatori sociali che era stato inaugurato gli anni scorsi. Credo sia un errore: il futuro è nella regolazione bilaterale, seppur integrativa, anche di ambiti prima di competenza esclusiva dello Stato. Si pensi alla previdenza o all’assistenza sanitaria: sarà così anche per i trattamenti di sostegno al reddito.
(Giuseppe Sabella)