Il lungo cammino delle riforme intrapreso dal Jobs Act continua senza arrestarsi mai. Tra le misure previste nei prossimi decreti attuativi, attualmente al vaglio, potrebbe esserci la fissazione di un salario minimo su base oraria, per le categorie professionali per le quali non esiste un contratto collettivo nazionale di categoria che fissi, appunto, la paga minima. Ove approvata, tale misura consentirebbe all’Italia di adeguarsi agli indirizzi dettati dall’Unione europea e ai 21 dei 28 paesi europei in cui tale normativa è già vigente.
Il salario minimo fu introdotto per la prima volta in introdotta in Australia e Nuova Zelanda alla fine del diciannovesimo secolo, per poi essere inserito in una serie di altri paesi, anche europei, quali la Francia, l’Ungheria, il Regno Unito, la Polonia, il Portogallo, l’Irlanda, la Romania, l’Estonia, la Grecia, la Bulgaria e la Lettonia, nonché da ultimo, la Germania (dal 2015).
Secondo le prime indiscrezioni, il salario minimo in Italia potrebbe aggirarsi intorno ai 6,5-7 euro netti l’ora. La fissazione di un salario minimo, se da un lato potrebbe favorire l’emersione del lavoro nero (o quanto meno la sua drastica riduzione), garantendo una paga oraria dignitosa per ciascun lavoratore e diminuire fenomeni di sfruttamento, dall’altro potrebbe “ingessare” il sistema, introducendo un elemento di rigidità per il mercato del lavoro ed escludendo, di fatto, tutti quei lavoratori che sarebbero disposti ad accettare, pur di lavorare, anche una paga oraria inferiore o a lavorare in nero.
Dal punto di vista aziendale, la fissazione di un tetto minimo di salario orario aumenterà i costi del lavoro e porterà alla definitiva esclusione dal mondo occupazionale di gruppi di lavoratori appartenenti a minoranze disagiate (immigrati, minoranze etniche, ecc.), poiché i datori di lavoro preferiranno, considerato il costo minimo, assumere lavoratori più qualificati o più istruiti.
Dal punto di vista sindacale, la determinazione di una paga oraria minima ridurrà fortemente il potere delle organizzazioni dei lavoratori nelle lotte volte a ottenere aumenti della paga base o di altre voci retributive e, dunque, potrebbe diminuire anche il numero degli scioperi, essendoci, alla base di questi ultimi, la continua richiesta di aumenti retributivi.
Alla fine, l’auspicio è che quanto meno l’introduzione di un salario minimo non produca effetti distorsivi nell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.