L’azione del presidente del consiglio verso i corpi intermedi pone serie perplessità. Nell’anno di governo passato le scelte operate per rompere un sistema di concertazione che stava diventando un sistema corporativo e di freno per ogni azione riformatrice hanno fatto intuire che vi era voglia di innovazione anche nei rapporti con le associazioni di rappresentanza. Successivamente è stato posto il tema di una riforma delle Camere di commercio che di fatto ne decretava la chiusura, almeno nelle prime intenzioni e dichiarazioni.
Anche nei confronti delle associazioni che organizzano il Terzo settore l’impostazione è stata di operare senza favorire forme di aggregazione, ma con uno schema illuministico-statalista. Fatte salve le particolarità delle regole bancarie, anche il provvedimento rivolto verso le banche popolari contiene lo stesso nocciolo di valutazione negativa rispetto a forme di rappresentanza di interessi territoriali della società civile.
La questione delle forme di rappresentanza, di organizzazione dei corpi intermedi e delle possibilità che possono giocare un ruolo nella fase di ripresa dello sviluppo mi pare troppo importante per essere affrontata solo con effetti demolitori e di rottamazione. Certamente la situazione attuale non si presenta come un equilibrio da salvare così com’è.
Le Camere di Commercio sono un’istituzione importante per il tessuto economico territoriale e possono essere un perno istituzionale per rilanciare la responsabilità delle associazioni imprenditoriali. Ma gli esempi di Camere che hanno solo un ruolo di compensazione fra poteri locali, dedite a piccoli interessi corporativi e senza nessuna capacità di sostenibilità economica, sono troppo diffusi e noti per non porre un urgente problema di riforma.
Discorso simile si può fare per il sistema delle banche popolari e cooperative. L’incapacità di proporre una iniziativa di autoriforma del sistema espellendo i furbi e favorendo chi ha mantenuto una reale capacità di sviluppo facendo crescere l’economia del proprio territorio, ha portato a una situazione indifendibile. Importante è che per intervenire con urgenza non si butti il bambino con l’acqua sporca e non si comprenda l’importanza di sostenere il sistema bancario cooperativo.
Le forme di rappresentanza degli interessi sia delle imprese che dei lavoratori sono anch’esse arrivate al confronto con la nuova fase di riforme senza un’autonoma capacità di rinnovamento. I riti della concertazione, i tavoloni utili a far vedere che tutti avevano un certo potere di intervento hanno mascherato a lungo il calo di rappresentatività delle associazioni e la loro incapacità di uscire da una logica puramente rivendicativa per tornare a un ruolo di proposta e assunzione di responsabilità.
Vero tutto ciò, ma un’azione di governo e della politica nel suo complesso che non tenessero conto dell’importanza dei corpi intermedi per la società italiana sarebbe contraddittorio rispetto all’obiettivo più volte dichiarato di rimettere in moto tutti, favorire la partecipazione e mobilitare capacità e professionalità diffuse nella nostra società.
In estrema sintesi, nel corso della costruzione dello Stato unitario abbiamo avuto una crescente statalizzazione dei servizi alla persona (e territorialmente anche quelli per le imprese) relegando le forme sussidiarie a essere solo interventi decisi e coordinati dall’alto per rispondere a bisogni particolari o semplicemente per contenere i costi dei servizi. Se si vuole però che la società italiana ritrovi dentro di sé le capacità di reazione alla crisi bisogna favorire una ripresa dei ruoli autonomi del ricco associazionismo e dei tanti corpi intermedi che, un po’ assopiti, sono però ancora presenti e possono essere la risorsa in più della nostra tradizione.
La società civile italiana ha ancora al proprio interno esempi importanti di sussidiarietà ed è solo favorendo l’emergere di queste reti positive che si può rilanciare quel settore di economia civile che è la terza forza economica, oltre ai sistemi pubblici e privati, necessaria per una nuova fase di sviluppo economico. Come le riforme dei diversi settori economici affrontano questo tema diventa allora determinante.
Rimanendo al settore formazione e lavoro abbiamo già nella realtà molti esempi positivi da cui partire. La formazione-lavoro lombarda si è rifondata sostenendo la centralità della scelta delle famiglie e riconoscendo agli operatori il sostegno economico in funzione degli iscritti che avevano e dei corsi finalizzati a creare sbocchi occupazionali. In pochi anni gli iscritti sono decuplicati, gli operatori capaci si sono rafforzati e gli speculatori della formazione sono emarginati, il rapporto con le imprese è “quasi” da sistema duale tedesco e circa il 50% si colloca alla fine del percorso formativo. Può essere un punto di partenza utile per tutto il Paese?
Altro esempio sempre collegato al Jobs Act è il sistema dei servizi al lavoro e l’Agenzia nazionale per l’occupazione. Per quanto attiene i servizi, la presa in carico che dovrà essere assicurata a tutti coloro che si troveranno in difficoltà verrà da agenzie pubbliche e private. Anche il settore dell’impresa sociale non profit è già presente e può quindi trovare a livello nazionale una nuova fase di crescita e, se le associazioni sindacali accetteranno la sfida, essere un’importante innovazione utile ad ampliare l’offerta di sostegno ai lavoratori in difficoltà.
L’Agenzia nazionale può allora essere un primo esempio dove proporre una governance che veda coinvolti in un modello di “cogestione” tutti i rappresentanti degli stakeholders. Non un tavolo di rivendicazioni o trattative, ma una sede di condivisione delle scelte con chi ha accettato la responsabilità di essere operatore nei servizi. Se vogliamo che tutti portino un contributo al bene comune c’è bisogno di sostenere gli interventi riformatori con uno scambio esplicito: più libertà di fare, ma più responsabilità nel fare. Questo sosterrà l’autoriforma degli attori sociali e nuove forme di governance partecipativa.