L’approvazione del Jobs Act ha riproposto il tema dell’estensione delle regole del lavoro privato anche ai dipendenti pubblici. Il ministro Madia ha spiegato che, pur volendo introdurre regole privatistiche nel rapporto di lavoro della Pa., bisogna tenere conto delle differenze esistenti. Giustamente ha sottolineato che i motivi di ristrutturazione di un’impresa privata, dove le risorse economiche sono messe da un imprenditore, rispondono a una base di diritti-doveri diversi da quelli dell’amministrazione pubblica.
Come per molte riforme avviate da questo governo, abbiamo assistito alla presentazione di pochi precisi principi, ma poi l’elaborazione dei testi legislativi ha rischiato di oscurare lo spirito riformatore dei provvedimenti ed è prevalso il peso di passati corporativismi e opportunismi. Nel caso della Pa, i principi da cui si è partiti erano quelli di rimettere al centro il cittadino, non più come suddito, ma come cliente di servizi che devono dimostrare la propria utilità con efficacia ed efficienza.
Per dirla con il vecchio Turati, “i tram non girano per dare lavoro ai tranvieri”. Essersi dimenticati per troppo tempo di questo principio basilare ha fatto crescere un settore pubblico che è spesso elefantiaco in servizi di scarsa rilevanza e rachitico dove servirebbe forza ed efficacia.
Il primo provvedimento per ottenere una reale mobilità nella Pa è certo quello di rompere le barriere fra le singole amministrazioni. Oggi una pur scarsa mobilità è possibile all’interno delle singole realtà amministrative, fra comune e comune, ma è difficilissimo passare fra diverse amministrazioni, tipo da comune a regione o a stato centrale, e impossibile farlo fra amministrazioni o società pubbliche anche al 100%.
Tutti gli interventi legislativi che si sono succeduti in questi anni hanno previsto meccanismi di mobilità, ma non sono riusciti a scardinare l’autoreferenzialità delle amministrazioni e non hanno inciso sull’immobilismo caratteristico della Pa. D’altro canto l’ideologia della precarietà, che è lo sviluppo della sostituzione del concetto di posto a quello di lavorare, è proprio frutto di un allargamento di contratti a termine degenerato nel settore pubblico allargato.
I contratti a termine nei servizi o nell’industria privata sono serviti ad assicurare flessibilità al sistema produttivo ingessato da norme sul lavoro che creavano un crescente dualismo fra tutelati e non tutelati. Nella Pa i vincoli di spesa e il blocco delle assunzioni hanno determinato un numero crescente di assunti con co.co.pro., talvolta reiterati per lunghi periodi e con mansioni di coordinamento essenziali per alcuni uffici pubblici. I continui rinnovi autonormativi in attesa di concorsi per la stabilizzazione hanno creato un gran numero di figure con compiti essenziali, ma che vedevano continuamente frustrate le attese di una certezza contrattuale.
La predisposizione di tabelle di equiparazione fra tutte le figure del pubblico impiego, indipendentemente dall’amministrazione da cui dipendono, è quindi il passaggio essenziale per poter avviare un processo di mobilità effettivo. Il primo banco di prova sarà l’ottimizzazione dei dipendenti delle ex provincie. Le aree vaste e le aree metropolitane erediteranno solo una parte delle competenze delle vecchie provincie e avranno quindi esuberi di personale significativi. Si valutano in 20.000 le persone che dovranno essere ricollocate.
Lo smantellamento del principio di pianta organica per singola amministrazione aiuterà questo grande processo di mobilità interno alla Pa. Ciò dovrà prevedere un’applicazione di strumenti e servizi cresciuti in questi anni nel settore privato. Valutazione delle competenze, orientamento professionale, formazione finalizzata a nuovi compiti individuati: sono tutti servizi dell’outplacement che dovranno essere applicati per organizzare e promuovere una mobilità assistita da servizi per il lavoro.
In un’analoga esperienza fatta in Francia, alcuni anni fa, furono società private che affiancarono un grande ministero e pianificarono un processo di outplacement, in quel caso sia interno che esterno alla Pa, fornendo un primo nucleo di operatori che poi divennero i gestori di processi di mobilità in altri settori dell’amministrazione statale. Ho citato questa esperienza pratica perché ritengo importante anche per il nostro Paese che l’avvio della mobilità con il processo derivante dalla soppressione delle provincie non resti un caso isolato, ma sia l’occasione per creare una struttura permanente che, nell’ambito della nuova Agenzia nazionale per l’occupazione, sia di supporto per servizi di mobilità a tutta la Pa nel futuro.
Sarebbe possibile, fatti i primi passi obbligati, coinvolgere l’Inps per la rete di dati sul personale coinvolto e creare una task force che sia in grado di assicurare i servizi necessari per supportare mobilità interna ed esterna. Così l’uniformità fra lavoro pubblico e lavoro privato sarebbe assicurata non solo da proclami di principio, ma da modalità gestionali uniche. Certo rispettose delle differenze contrattuali, ma senza ricreare un dualismo di mercato che creerebbe di nuovo lavoratori con tutele diversificate. Oltretutto, un nuovo dualismo non scioglierebbe quel nodo ideologico del posto importante perché tutelato solo nella Pa, considerando di Serie B tutti gli altri lavori che richiedono una costante attenzione alle proprie capacità professionali.
Ho tralasciato di sottolineare possibili differenze fra dirigenti e non perché ritengo un falso problema dire che non può esserci mobilità fra manager pubblici e privati. Già oggi dove ciò è stato sperimentato ha dato buoni risultati. È solo l’autoreferenzialità di troppe amministrazioni che ha frenato le sperimentazioni, ma non si può più rinviare un rinnovamento del modo di lavorare che torni a mettere i tram sui binari giusti per rispondere ai cittadini con servizi efficienti.