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Home » Lavoro » Giovani, Famiglia e Lavoro » SPILLO/ Gig, l’illusione dei “lavoretti” per i giovani italiani

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SPILLO/ Gig, l’illusione dei “lavoretti” per i giovani italiani

Sergio Luciano
Pubblicato 14 Novembre 2016
Foodora_Bicicletta_R439

LaPresse

I giovani italiani non vivono un momento facile, specie per quel che riguarda gli sbocchi occupazionali. Per questo, dice SERGIO LUCIANO, non bisogna illuderli sulla gig economy

“Non c’è pane? Mangiate brioches!”: la battuta, attribuita a una Maria Antonietta di Francia negli ultimi giorni che ne precedettero la decapitazione a opera dei rivoluzionari francesi, rappresenta l’apoteosi di un modo d’intendere la politica (la malcapitata ovviamente né sapeva cosa fosse la politica, né se ne occupava) che veramente ancora oggi conduce i governanti alla rovina, anche se non più alla mannaia. Significa pretendere che la gente non solo tolleri i propri disagi, ma ne accetti anche l’irrisione. Significa “credere di poter far credere” al prossimo affamato e infreddolito che sbaglia, che dovrebbe sentirsi sazio e ben caldo. No, è troppo: i problemi capitano, e ci si può anche abituare, le beffe fanno infuriare.


TIROCINI/ La riforma necessaria per puntare a qualità e inclusione


È quel che è successo negli Stati Uniti con Trump, quel che era successo in Gran Bretagna con la Brexit, quel che rischia di capitare in Italia, dove un governo sicuramente pieno (anche) di buone intenzioni insiste a rappresentare con una martellante campagna di comunicazione una realtà che è l’opposto di quella percepita.


I NUMERI/ “In Italia ceto medio dimezzato in 20 anni (35%), il 74% dei giovani non vede opportunità”


Un tassello da non sottovalutare in questa ricostruzione è il recente roboante annuncio dei primi accordi quadro per l’alternanza scuola-lavoro, una formula in sé e per sé sacrosanta (è, per esempio, un pilastro dell’efficiente sistema occupazione tedesco), ma esplosiva e francamente sconcertante, in questa fase di drammatica progressione della disoccupazione giovanile.

È passato forse a torto ma con forza il concetto – evidentemente vicino al vero – che sia un favore per le imprese, e non per i giovani in cerca di lavoro. È passato il concetto che, ospitando in stage per 400 ore gli studenti delle scuole superiori, le imprese possano avvalersi di manodopera gratuita che non impara nulla (che c’è di speciale da imparare, che giustifichi un lungo stage, nel friggere patatine o servire al McDonald’s? dopo una settimana si sa tutto quel che c’è da sapere, sia detto senza offesa); e la cosa finisce col costituire uno sgravio “in natura” per le imprese che accolgono i ragazzi e li usano, in cambio di niente.


SCUOLA/ 4+2, due problemi aperti e un errore da evitare


Cinque anni fa, dopo le dimissioni dell’ultimo governo Berlusconi, c’erano in Italia 100 mila imprese in più, che hanno chiuso, e il 30% di disoccupazione in meno, e 200 miliardi di debito pubblico in meno. Non è certamente tutta colpa del governo Renzi, anzi: qualcosina l’ha pur migliorata. Ma sta di fatto che da cinque anni le cose vanno male e la ripresina dell’ultimo anno è gracile e precaria e non si è risolta in occupazione. La gente lo percepisce, non è con le chiacchiere che se ne dimentica, né il Jobs Act ha prodotto effetti sistemici tali da cambiare questa percezione, e tantomeno l’hanno fatto gli 80 euro al mese: meglio averli intascati, per chi ne aveva il diritto, ma poveri erano e poveri restano.

Un capitolo a parte riguarda i poi nuovi “lavoretti”, in inglese “gig”, tipici della sharing economy: consegnare pizze e cibarie varie a domicilio per Foodora, Deliveroo, Just-Eat, Uber Eat, eccetera; fare da para-tassisti per Uber; e simili. Si chiamano “lavoretti”. Si chiamano “arte di arrangiarsi”. Si chiamano “meglio che niente”. E ci sono sempre stati: digitali no, analogici, sul filo del telefono o del passaparola, ma ci sono sempre stati. E vanno bene così: basta che nessuno si azzardi a presentarli come soluzioni al “problema”: che nessuno faccia come Maria Antonietta, “non c’è lavoro, andate a consegnare pizze in bicicletta”.

Invece è quel che accade, periodicamente anche a opera di testimonial imprevedibili che ne decantano le virtù. Non va bene. Non si può sostituire il certo con l’incerto. Uno stipendio da 20, 30 mila euro all’anno – fisso – rappresenta una base che in molti piccoli centri italiani è sufficiente per vivere con un po’ di decoro, si può anche chiedere un piccolo mutuo per una casetta, anche se nelle metropoli si fa fatica a tirare la fine del mese; ma intascare quattrocento o cinquecento euro al mese, senza mai esser sicuri che entreranno anche il mese prossimo, non è un’ammissibile alternativa.

A tutti i ragazzi che si prodigano in questi “lavoretti” va la simpatia e il massimo sostegno, molto meglio che si cimentino così piuttosto che si lascino tentare dalle seduzioni delle scorciatoie illegali – e quante ce ne sono, soprattutto al Sud – o sprofondino nell’abulia del “Neet”, quello che non studia più, ma neanche ha più la determinazione per cercare un lavoro che gli sfugge. Però, non diciamogli che consegnando sushi e tempura a domicilio hanno risolto i loro problemi e magari devono essere anche contenti “perché così intanto fanno sport”.


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