Ma chi ha ragione e chi ha torto, tra industriali e sindacati, nello scontro ormai aperto sulla riscrittura delle regole del rapporto di lavoro? Ha detto Diego Andreis, Presidente Gruppo Meccanici Assolombarda e Vicepresidente Federmeccanica, in occasione dello sciopero generale dei metalmeccanici del 20 aprile: “Dal 2007 a oggi il nostro settore ha perso il 30% della produzione industriale, il 25% delle aziende hanno chiuso o hanno ridotto le loro attività, quasi 300 mila lavoratori hanno perso il proprio posto di lavoro. Nello stesso periodo le retribuzioni contrattuali sono cresciute di circa il 24% mentre la ricchezza prodotta dalle aziende è scesa di circa il 18%”.
E fin qui, tutto purtroppo vero. Poi, la conseguenza, invece tutta da verificare: “In un simile contesto crediamo che il Contratto nazionale debba avere un ruolo regolatorio, di garanzia e di tutela, mentre il contratto aziendale debba prevedere normative in grado di cogliere le esigenze specifiche e distribuire la ricchezza laddove prodotta”. Tradotto: abbiamo sbagliato a pagarvi di più mentre le nostre aziende guadagnavano meno (vero); in futuro dobbiamo lasciar decidere alle singole aziende quanto pagare i loro dipendenti in rapporto all’andamento economico.
Ma qui, direbbe Totò, casca l’asino. Perché nella sede negoziale della singola azienda, il sindacato aziendale non ha né può avere lo stesso potere contrattuale con la sua “controparte” (ma sì, usiamola questa vecchia parola, è molto chiara, perché quando si tratta di dividere soldi gli interessi sono sempre contrapposti, anche tra persone perbene, sia pure in modo assai minore che tra persone malintenzionate) che ha il sindacato nazionale. Perché quello aziendale è, semplicemente, più “ammorbidibile” con promesse o minacce, quello nazionale meno.
Se vogliamo raccontarci la favola di un’umanità imprenditoriale naturalmente orientata al bene comune e al rispetto del prossimo, procediamo pure con i contratti aziendali. Se crediamo che invece sulla distribuzione del reddito occorrano regole condivise da tutti che riducano i rischi di inquinamento dei negoziati, non restringiamo troppo gli ambiti regolatori dei contratti nazionali.
Ci sono in Italia fior di esempi – e quello del gruppo Vacchi, il candidato sconfitto nella corsa alla Confindustria è tra essi – di contratti aziendali che, pur in presenza di regole nazionali ancora piuttosto vincolanti come quelle attuali, hanno incontrato la piena soddisfazione dei lavoratori e dei loro sindacati locali e consentito il florido sviluppo delle aziende. Si era però in casi di aziende ben gestite da bravi imprenditori disposti a dividere equamente i profitti generati e a investire nello sviluppo delle aziende stesse e non solo nella lunghezza dei propri yacht. Bene. Ma i casi positivi come questo vanno studiati per farne un modello di regole generali cogenti, non per affermare che spontaneamente tutto il sistema si ispirerà a essi.
Però anche la Federmeccanica ha ottime ragioni quando ricorda che esistono ormai voci retributive – come i premi di risultato e le erogazioni di welfare – che contemperano l’esigenza aziendale di non svenarsi e quella dei lavoratori di guadagnare di più grazie alla tassazione agevolata: al 10% sui premi di risultato e addirittura allo 0% per le erogazioni di welfare, contro una tassazione ordinaria degli incrementi contrattuali che in media si attesta al 38%.
Qui imprenditori e sindacati non possono che essere d’accordo, ma devono fare bene i conti con l’Oste-erario: perché se un domani tutto il sistema dell’industria privata si orientasse a erogare gli aumenti nelle formule detassate, il gettito fiscale previsto sul monte-salari si ridurrebbe in una misura che forse il governo sarebbe costretto poi a comprimere diversamente, per non riportarne dei danni sui famosi “saldi” del bilancio pubblico, famelico di entrate fiscali (non a caso cresciute anche nel 2015) come non mai.
Poi, per carità: la proposta Federmeccanica è interessante anche su altri fronti, come la garanzia al 100% dei dipendenti di una copertura sanitaria estesa anche ai loro familiari e a totale carico delle aziende attraverso il fondo mètaSalute che coprirà anche i lavoratori in cassa integrazione e in mobilità; o l’aumento del contributo aziendale per la previdenza complementare che potrebbe aumentare “in una sola tornata contrattuale in misura quasi pari all’incremento maturato in circa 20 anni”. Ma se lo scambio che gli imprenditori propongono ai lavoratori è quello di rinunciare, a fronte di questi vantaggi, alla forza contrattuale connessa al contratto nazionale e alle trattative nazionali su di esso, in favore della sede aziendale, ecco: la storia di Esaù e Giacobbe deve insegnare qualcosa, non si rinuncia a un ruolo, a un diritto permanente in nome di un interesse contingente.
Il ruolo e il diritto del sindacato nazionale è quello di scrivere norme valide per tutti a livello nazionale con tutto il potere contrattuale che deriva appunto dalla forza della rappresentanza. Le aberrazioni come quelle ricordate all’inizio – risultati aziendali in caduta e salari in crescita – vanno sanate, ma analizzandole e riconoscendole comunque in sede nazionale; a livello aziendale si faranno gli aggiustamenti e le integrazioni appropriate, ma in un ambito di regole collettive più vasto di quello che piacerebbe agli industriali, anche se forse non più quanto lo è stato negli ultimi vent’anni su pressione sindacale. In fondo, una mediazione: da trovare, appunto, in sede nazionale.