A fronte del quadro di cui ho parlato nella prima parte, si sono gradualmente affermate una grande borghesia superprotetta ed élite giacobine e tecnocratiche estranee alla vita del popolo, portatrici di un’idea di razionalità puramente tecnica e al fondo nichilista. Don Giussani, un grande maestro del nostro tempo, qualche anno dopo il ciclone di Tangentopoli, in un momento di grande confusione per il Paese, indicava la gravità della situazione nello «smarrimento totale di un punto di riferimento naturale oggettivo per la coscienza del popolo, per cui il popolo stesso venga spinto a ricercare le cause reali del malessere». Uno smarrimento che comporta un’inevitabile «distruzione dello stato di benessere, che risulta così totalmente minato nella tranquillità del suo farsi».
Nel libro già citato di Benvenuto si osserva come trent’anni fa sindacati e lavoratori che accettarono l’accordo sulla scala mobile contribuirono a far uscire dall’angolo il Paese a prezzo anche di una divisione che metteva a rischio la loro forza contrattuale. Il governo agganciò la ripresa e rilanciò la crescita. Oggi, si legge sempre nel testo, quei lavoratori andrebbero «rimborsati» per quei sacrifici, «ricostruendo una dinamica salariale che è stata devastata nel tempo, riconoscendo che senza un barlume di solidarietà non esiste società». E si nota poi che non si tratta di una semplice questione di redistribuzione del reddito, ma riguarda «la ricostruzione delle ragioni che consentono di stare assieme». Proprio questo sono convinto sia un punto di fondamentale importanza.
Uno dei fattori essenziali per una convivenza civile che sia tale è la fiducia, ma è anche al tempo stesso il fattore che è stato più radicalmente compromesso, soprattutto negli ultimi anni. È stata messa in discussione la capacità di formarsi un sistema di certezze morali per cui sulla base di pochi indizi, per esempio, posso arrivare a fidarmi di una persona. L’indebolirsi di questa capacità, fondamentale per l’articolarsi della vita nelle sue diverse espressioni sociali, culturali ed economiche, è un problema più grave di quanto si possa a prima vista pensare.
Un deficit al quale non si può sopperire con un’overdose di normative e di regole come si tende invece a fare ottenendo come solo risultato di complicare ulteriormente la situazione. Oggi viviamo in un’epoca in cui la risposta alla tensione inevitabile fra l’io e la comunità sembra sia l’individualismo. Oltre alla persuasione diffusa che io raggiungo meglio il mio bene se prescindo dagli altri, si arriva anche a vedere nell’altro una minaccia al raggiungimento della propria felicità. E quanto più l’altro è concepito come un potenziale nemico tanto più viene a galla la necessità di un intervento dall’esterno per gestire i conflitti. Più da un lato si incoraggia l’individualismo, più dall’altro si è costretti a moltiplicare le regole per mettere sotto controllo il «nemico» che ognuno di noi si rivela potenzialmente essere per l’altro. Ma le regole non saranno mai sufficienti come vediamo di continuo.
Non servirà neppure un soprassalto etico. La ricostruzione di un adeguato rapporto fra l’io e gli altri richiede un lavoro molto più sostanziale che ha a che fare con l’educazione, portando allo scoperto il presupposto errato su cui si regge l’individualismo che è quello di pensare che la felicità corrisponda all’accumulo. Ma questo, ci insegna l’esperienza, non potrà mai risolvere il dramma dell’uomo.
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