AMAZON E SINDACATI/ In gioco c’è più di diritti e di salari

- Daniel Zanda

Cosa c'è veramente dietro alla protesta dei lavoratori di Amazon sfociata nello sciopero del mese scorso e che ancora non è placata? DANIEL ZANDA ci aiuta a capirlo

amazon coronavirus Immagine di repertorio (Lapresse)

Lo scorso venerdì 24 novembre, in occasione del Black Friday, i lavoratori di Amazon della sede di Castel San Giovanni a Piacenza hanno incrociato le braccia, per il primo sciopero in Italia nella breve storia del colosso americano. È importante specificare che lo sciopero in Italia ha riguardato solo la sede di Castel San Giovanni, mentre non hanno scioperato i lavoratori degli stabilimenti di Passo Corese, Vercelli, Origgio o Milano. La motivazione è semplice: a Castel San Giovanni Amazon è presente ormai dal 2014, mentre lo stabilimento di Passo Corese per esempio, è attivo solo da questa estate, quindi difficilmente maturano le motivazioni per uno stato di agitazione dopo soli tre mesi di attività. È stata quindi la ripartizione degli ordini sugli altri stabilimenti ad aver limitato i danni della mobilitazione.

Ma perché i lavoratori di Amazon hanno scioperato? Sia i dipendenti diretti (i fissi dal badge blu) che i lavoratori con contratto di somministrazione? I media hanno dato grande risalto alla vicenda, ma come spesso accade, limitando l’analisi ai titoli: la notizia era che il colosso americano dell’e-commerce doveva fare i conti con la prima “rivolta” dei suoi operai, paventando, in coerenza con il più classico stile capitalista, ragioni di fondo di carattere economico, legate cioè alla retribuzione. La realtà però è spesso ben più complicata, articolata, complessa dei titoli. Cerchiamo quindi di capire di più. 

Premesso che la questione economica non è centrale in questa vicenda, ma allo stesso tempo non è nemmeno esclusa. Perché in una concezione sindacale di partecipazione al destino dell’impresa da parte dei lavoratori, ovvero in una dinamica di co-responsabilità e quindi di condivisione, richiamata negli ultimi anni soprattutto dai datori di lavoro con il motto “i sacrifici li devono fare tutti”, oppure il “siamo tutti sulla stessa barca”, tentando di dare una motivazione etica, se non addirittura umanamente accettabile alla cassa integrazione o ai licenziamenti di questa crisi, occorre prendere atto anche dell’altro lato della medaglia: come si condividono le scelte drammatiche nei periodi di difficoltà aziendale, così nei momenti di prosperità, parte degli utili di bilancio, dei profitti, devono essere ripartiti anche tra i lavoratori. 

Quindi la rivendicazione salariale nel caso di Amazon è più una questione di metodo, legata a un modello di concepire il rapporto tra capitale e lavoro non conflittuale, ma appunto partecipativo. Al centro quindi delle ragioni della mobilitazione c’è altro. Al cuore c’è il riconoscimento di una dignità umana nel lavorare. Non è accettabile che nel 2017, dopo 3 anni di attività in Amazon, molti lavoratori riscontrano problemi fisici riferibili all’apparato muscolo-scheletrico, con interessamento principalmente delle articolazioni, per esempio lesioni ai legamenti, tendiniti e borsiti date dalla ripetitività dei movimenti, problemi alle ginocchia per il sovraccarico di lavoro, erosione cartilaginea, ernie cervicali e dorsali, problemi quali attacchi di panico, depressione, ansia. Le cause risiedono nella ripetitività dei movimenti, dello sforzo fisico per garantire i livelli di performance chiesti e tempi di recupero insufficienti.

Non è quindi un caso che la stragrande maggioranza dei lavoratori con contratto di somministrazione, appena trova un’occasione migliore di lavoro non esita a dare le dimissioni. La dignità umana non riguarda solo l’aspetto della salute e sicurezza, anche se è quello più importante, ma riguarda anche la valorizzazione della propria professionalità, il riconoscimento di una competenza e di una particolare esperienza in una certa mansione o attività. Invece la politica aziendale è quella del turnover spinto, di spremere il più possibile i lavoratori per tre mesi di contratto temporaneo e appena l’algoritmo o il cronometro del palmare che dà istruzioni sul recupero della merce segnala un valore negativo o un calo della performance il lavoratore viene sostituito. 

Di sostituzione in sostituzione, i lavoratori ormai vengono reclutati a oltre 50 km di distanza, con l’effetto che molti di loro, per l’avvicendamento di turni, si fermano a bivaccare in azienda, negli spogliatoi, come se fosse un enorme dormitorio, con il conseguente deteriorarsi della situazione igenico-sanitaria.

Questo è il vero prezzo del servizio. Nell’immaginario la punta più evoluta dell’e-commerce, dell’impresa 4.0, ma nella realtà metodi di lavoro e modalità di gestione delle risorse umane più prossime al tardo 1800 che al nuovo millennio. In questa situazione di evidente tentativo di alienazione, perché il contenuto del lavoro è regolato da un algoritmo e tu sei definito nella misura in cui rispondi o meno a quelle indicazioni, cosa salva l’umanità di quelle persone? Prima ancora della garanzia di certi diritti, in che modo è possibile affermare una dignità dell’uomo al lavoro?

Innanzitutto attraverso la possibilità di due o più lavoratori di mettersi insieme per rispondere a un loro comune bisogno. Questa esigenza connaturale all’uomo, cioè quella di entrare in relazione, in rapporto con coloro che vivono la medesima situazione è il fattore decisivo. Non perdere questa possibilità, ma anzi favorirla, sostenerla e guidarla deve essere una responsabilità di tutti, in primis di un sindacato moderno e riformista come la Cisl.

Il 20 dicembre, dopo aver disertato l’incontro con il Prefetto, che ricordo essere l’autorità del Governo sul territorio, Amazon ha tentato di negare lo svolgimento di un’assemblea tra i lavoratori e solo l’intervento dei Carabinieri ha ristabilito l’ordine che appartiene a uno Stato di diritto, permettendo lo svolgimento dell’assemblea ai lavoratori. Qui non ci sono in gioco i diritti, il caso di Amazon è esemplificativo di una deriva che calpesta la dignità del lavoro. 

In questi giorni di festa del Natale ci viene in aiuto il Santo Giovanni Paolo II quando nella Rerum Novarum evidenzia già il rischio di “una minaccia al giusto ordine dei valori… è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo… che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro. Tutto ciò depone in favore dell’obbligo morale di unire la laboriosità come virtù con l’ordine sociale del lavoro, che permetterà all’uomo di ‘diventare più uomo’ nel lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro, logorando non solo le forze fisiche, ma soprattutto intaccando la dignità e soggettività, che gli sono proprie”. E ancora: “Sulla base di tutti questi diritti, insieme con la necessità di assicurarli da parte degli stessi lavoratori, ne sorge ancora un altro: vale a dire, il diritto di associarsi, cioè di formare associazioni o unioni, che abbiano come scopo la difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni. Queste unioni hanno il nome di sindacati”. 

Forse questo periodo natalizio può essere veramente l’occasione per una ri-nascita, sia per il lavoro che per la sua dignità. 





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