Il tema salariale ha assunto un certo peso nelle proposte programmatiche avanzate dalle forze politiche in avvio di campagna elettorale. È soprattutto l’idea di un salario sociale a tenere banco con proposte leggermente diverse, ma presenti in tutti i programmi dei partiti populisti. L’idea di pagare un salario a tutti coloro che risultano disoccupati o comunque con famiglia a carico, seppur attiri l’attenzione di molti, non raccoglie consensi fra chi si occupa seriamente di lavoro e nuovo welfare. Le due obiezioni contro tale proposta sono d’altro canto decisive. Da un lato nessuna delle proposte avanzate ha presentato un piano di copertura economica. Pertanto il costo, che oscilla fra gli 8 ed i 12 miliardi di euro l’anno, sarebbe tutto a carico di una nuova crescita della spesa pubblica risultando quindi non compatibile con gli obiettivi di rientro dal debito pubblico che il nostro Paese ha. Non solo perché richiesto dall’Europa, ma soprattutto per liberare risorse con cui finanziare investimenti per la crescita economica.
In secondo luogo, vi è una risposta negativa dalla maggioranza delle forze sociali e politiche impegnate a ridisegnare il modello di welfare. Tutte le misure prese negli ultimi anni hanno come fondamento meccanismi finalizzati ad aumentare le capacità e l’autonomia degli individui. I meccanismi previsti dalle nuove forme di sostegno al reddito (sia per rispondere all’inclusione sociale da povertà o disoccupazione) prevedono percorsi finalizzati alla riconquista di autonomia attraverso una nuova collocazione lavorativa. L’idea di tornare a forme di distribuzione di sussidi senza vincolare i beneficiari a un percorso di reinserimento suona quindi contraddittorio con il nuovo modello di welfare introdotto dalle riforme degli ultimi anni.
Oltre a questo dibattito è stata però avanzata la proposta di fissare per legge il livello minimo dei salari. Questa proposta esula dalle questioni legate al rispetto dei vincoli posti dal deficit pubblico nazionale. Vuole invece essere una risposta al diffondersi di lavori sottopagati introducendo un livello minimo salariale che permetta nuove forme di controllo contro gli abusi salariali e nuovi livelli di tutela per i lavoratori nei diversi settori produttivi. Pur essendo una misura presente nei paesi economici più sviluppati la proposta ha aperto un dibattito che vede anche i sindacati dei lavoratori opporsi a un intervento legislativo che non tenga conto anche di molti altri aspetti.
Cerchiamo di fare chiarezza sugli aspetti generali. In primo luogo è da valutare proprio il ruolo delle organizzazioni sindacali e del valore dei livelli salariali fissati dalla contrattazione nazionale. Anche se in tanti considerano intoccabile la nostra Costituzione, perché ritenuta “la più bella del mondo”, gli stessi si guardano bene dal richiedere l’applicazione di alcuni articoli per regolamentare la rappresentatività delle organizzazioni sia padronali che dei lavoratori. In assenza di tale regolamentazione, nel corso degli ultimi anni, vi è stata un’esplosione di contratti nazionali sottoscritti da associazioni di rappresentanza per nulla o poco rappresentative. Il risultato è che oggi, se si volesse usare come indicatore di riferimento, il dato salariale contenuto in un contratto nazionale di categoria, ci troveremmo di fronte a valori molto diversi fra di loro.
In questa nuova situazione vi sono esigenze poste da nuovi rapporti di lavoro (si pensi ai lavori solo parzialmente dipendenti di chi collabora a piattaforme informatiche), ma anche veri e propri abusi salariali come evidenziato da molti interventi anche della magistratura nel settore agricolo o della logistica. La mancata applicazione del dettato costituzionale non ha dato vita a questa situazione per decenni solo perché il numero delle rappresentanze sindacali di peso nazionale era rimasto limitato e invariato. Peraltro il forte legame esistente fra rappresentanza sindacale e sistema dei partiti assicurava che l’immobilismo non provocasse nuove forme di rappresentanza sociale. La fine del sistema dei partiti e una legislazione che ha permesso la crescita di nuove rappresentanze ha permesso che si arrivasse alla situazione odierna e il tempo a disposizione per giungere a una decisione diventa sempre più scarso.
Il timore sindacale è che un’indicazione di minimo salariale fissato per legge renderebbe ancora più debole il valore della contrattazione nazionale. Si porrebbe inoltre il rischio che il valore fissato risulti inferiore a quanto previsto dai contratti in alcuni settori. Ciò aprirebbe spazi ad abusi o contasti fra realtà locali e norme nazionali rendendo ancora più fitta la giungla dei valori salariali di riferimento. La situazione attuale è ormai giudicata da tutti come insostenibile. Sono pressoché quotidiane le notizie relative a situazioni lavorative che sfuggono alla capacità di intervento tramite i canali tradizionali del confronto sindacale fra le parti. Da parte sindacale si ritiene prioritario partire dal fissare criteri di rappresentatività. Un primo accordo fra governo e le principali rappresentanze dei lavoratori va infatti in questo senso. Lo stesso dovrebbe avvenire per le rappresentanze delle imprese.
Come detto prima, però, il tempo sta scadendo. Già nel corso della passata legislatura il ministro dell’Agricoltura ha legiferato contro gli abusi del lavoro nero e contro gli abusi salariali nel settore fissando minimi di riferimento. Con la nuova legislatura che si aprirà dopo il 4 marzo sarà importante avviare da subito un confronto che sciolga i nodi storici che ancora frenano le rappresentanze sindacali dell’accettare l’applicazione di quanto previsto dalla Costituzione. Una rappresentanza “certificata” restituirà pieno valore ai contratti nazionali e questi potranno definire anche le tutele minime valide in tutti i settori. A quel punto si scoprirà che, così come già in essere nei principali paesi industrializzati, fissare per legge un valore minimo ai salari non sarà una misura inutile, ma uno strumento in più di riferimento per nuovi lavori e per le strutture preposte a combattere gli abusi.