La riforma delle pensioni 2011 non va toccata: è il monito di Moody's dopo il risultato delle elezioni italiane senza un chiaro vincitore. Il commento di GIULIANO CAZZOLA
Circa un secolo fa l’Italia contaminò l’Europa con il virus del fascismo. Oggi il nostro è diventato l’unico grande Paese, tra quelli fondatori dell’Ue, in cui i partiti e i movimenti populisti hanno trionfato nelle elezioni. Ci stiamo pericolosamente avvicinando a taluni Paesi dell’Est-Europa (non a caso Giorgia Meloni ha fatto visita all’ungherese Orban), i quali hanno perduto la memoria di che cosa ha significato per loro essere annessi nell’Unione dopo il crollo del Muro di Berlino. Ovviamente l’esito delle elezioni del 4 marzo (anche se era previsto ma non in quelle dimensioni) ha suscitato molta preoccupazione nelle Cancellerie, a Bruxelles e sui mercati. A parte qualche scossone a Piazza Affari, le altre Borse europee non hanno ancora accusato il colpo. Se il primo tempo – le elezioni – ha mandato dei segnali inquietanti, resta ancora da vedere il secondo tempo (la formazione di una maggioranza e di un governo), compresa la fine dell’intera vicenda.
Intanto da Moody’s – una delle tre sorelle del rating – è arrivato un caveat molto esplicito: giù le mani dalle riforme, da quelle del lavoro e delle pensioni in particolare. Gli analisti hanno avvertito – come scrivono i commenti delle agenzie – che eventuali passi indietro sulle riforme già attuate sarebbero negativi per il merito di credito dell’Italia. Ad esempio, ha ribadito l’agenzia, la Legge Fornero del 2011 ha contribuito a migliorare la sostenibilità di lungo termine del sistema pensionistico del Paese. Un passo indietro su questo fronte, come promesso in campagna elettorale da M5S e Lega, rappresenterebbe un rischio per il rating visto che l’Italia spende già quasi il 16% del Pil per le pensioni, una delle percentuali più alte nell’Unione europea.
Moody’s ha riconosciuto che il Governo uscente ha attuato o avviato riforme in diversi settori, compreso il mercato del lavoro, il settore bancario e il sistema fiscale, ma avverte che l’andamento della crescita e la competitività internazionale dell’Italia sono chiaramente in ritardo rispetto agli altri Paesi dell’area euro. In sostanza da Moody’s è venuto l’avviso di un declassamento dell’affidabilità del nostro Paese se le proposte contenute nei programmi di Lega e M5S divenissero iniziative del prossimo governo. Ed è presumibile che anche le altre agenzie farebbero lo stesso.
Certo i rating internazionali non sono scritti sulle Tavole della Legge, ma contano – e parecchio – ugualmente, in quanto condizionano i tassi di interesse sul debito e quelli sulle nuove emissioni o rinnovi dei titoli (anche perché il sostegno della Bce non sarà eterno). Soprattutto perché le nuove regole del pensionamento contenute nei due programmi sono molto simili e puntano a fare del trattamento di anzianità (quota 100 o 41 anni di contribuzione) la colonna portante del sistema pensionistico, dimenticando che proprio il superamento di tale istituto era richiesto dalla lettera della Bce del 5 agosto 2011.
Lungi da noi la volontà di fare processi alle intenzioni e di mettere a confronto un rapporto serio come quello presentato (col n. 5) da Itinerari previdenziali con i programmi abborracciati di due forze politiche. Ma le proposte contenute nelle conclusioni di quel documento potrebbero fornire un’indicazione su come manomettere la riforma Fornero delle pensioni. “Sono quindi preferibili – è detto nel Rapporto – politiche che tendano a premiare il ‘lavoro’, la ‘fedeltà contributiva’ e le lunghe carriere per cui l’indicizzazione dell’età di pensionamento alla aspettativa di vita resta un requisito irrinunciabile per gli equilibri del sistema (soprattutto per le pensioni di vecchiaia con carriere brevi e per quelle assistenziali), ma occorre altresì reintrodurre elementi di flessibilità in uscita ripristinando le caratteristiche della legge n.335/1995”.
A tal fine – è questo il cuore della proposta a cui si aggiunge un ripristino strutturale (e assai oneroso) del pensionamento flessibile in un range definito – si dovrebbe in prima battuta sganciare l’anzianità contributiva dall’aspettativa di vita (una caratteristica solo italiana introdotta con la riforma Fornero) prevedendo un minimo di 41 anni e mezzo di contribuzione con un massimo di 3 anni di contributi figurativi e un’età minima di 63 anni d’età. “È scarsamente equo (e, si potrebbe dibattere, forse anche poco costituzionale) – sostiene ancora il Rapporto – immaginare che un lavoratore possa accedere alla pensione con solo 20 anni di contributi e 67 anni di età (magari facendosi integrare la prestazione per via della modesta pensione a calcolo) e che un altro con oltre il doppio dei contributi e senza rischi di integrazioni a carico dell’erario, debba lavorare per oltre 43 anni (nel 2019)”. La ragione di tale differenziazione contenuta nel rapporto mi sfugge: in sostanza, i settori più deboli del mercato del lavoro e in particolare le donne (i soggetti che sono costretti ad avvalersi del trattamento di vecchiaia per la loro collocazione nel mercato del lavoro che non consente lunghe e stabili carriere lavorative) sarebbero sottoposti all’incremento automatico dell’età pensionabile rispetto all’andamento dell’attesa di vita, mentre coloro che hanno le condizioni per la quiescenza anticipata godrebbero di regole e requisiti fissati stabilmente.
Rimango, invece, convinto (un’opinione condivisa da gran parte della letteratura previdenziale) che sia stato proprio il settore dell’anzianità – in sinergia con i dati demografici ed occupazionali – a mettere in ginocchio il sistema pensionistico italiano. E che questa tipologia, crescente e inarrestabile (per l’anzianità si spende il doppio che per la vecchiaia), rappresenti il vero “privilegio” dei babyboomers e dello sviluppo industriale nei confronti di quelle future (che peraltro quota 100 o 41 anni di contribuzione faranno molta fatica a raggiungerli).