Il nuovo Contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti delle “funzioni centrali” (Stato, Agenzie, Cnel e altri) è “deludente”, secondo la Corte dei conti, perché riversa tutti gli incrementi sullo stipendio e non riserva nulla alla produttività? Rispondono i sindacati che il Ccnl (i cui contenuti sono sostanzialmente ripresi da quelli degli altri tre comparti del pubblico impiego), invece, non poteva non essere stipulato così: “L’avere destinato tutte le risorse finanziate alle retribuzioni tabellari è stata una scelta di Cgil, Cisl e Uil proprio in considerazione del prolungato e ormai insopportabile blocco. Scelta concordata con l’Aran e inevitabile, considerate le aspettative dei 260.000 lavoratrici e lavoratori del comparto delle Funzioni centrali”.
Inutile, adesso, indagare su chi abbia ragione o torto, se la Corte dei conti, o le organizzazioni sindacali. Stiamo, invece, ai fatti. E i fatti dimostrano che in realtà hanno ragione entrambi, ma nel dibattito manca un elemento fondamentale: come valutare i risultati.
I sindacati hanno ragione nel rivendicare i contenuti certamente poco innovativi del Ccnl e la destinazione delle risorse esclusivamente o quasi all’incremento secco degli stipendi. Non si deve dimenticare che, al contrario di quanto dichiarato da vari ministri del Governo dimissionario, la nuova stagione contrattuale del lavoro pubblico non è per nulla stata il frutto di un’iniziativa di politica del personale da parte dell’Esecutivo. Al contrario, si è dovuto rinnovare i contratti in esecuzione della sentenza della Corte costituzionale 178/2015, che ha dichiarato incostituzionali (sia pure non in via retroattiva) i blocchi alla contrattazione disposti da varie normative a partire dal 2010.
Le organizzazioni sindacali, dopo anni di stasi, hanno colto al volo l’opportunità per mettere sul piatto della bilancia un recupero integrale del potere d’acquisto perduto, rinviando a momenti migliori tutta la parte della negoziazione finalizzata ad attivare sistemi di premio conseguenti alla valutazione della produttività. Forti, i sindacati, anche di un’altra contingenza: il riavvio della stagione contrattuale parallelamente alla campagna per il referendum relativo alla riforma della Costituzione, che ha esposto il Governo, alla caccia di consensi, all’incauto accordo del 30 novembre 2016 (4 giorni prima della tornata referendaria), col quale si è impegnato a reperire un aumento secco delle retribuzioni pubbliche di 85 euro lordi medi. Un accordo che ha oggettivamente legato le mani del Governo con le stesse corde da esso messe a disposizione dei sindacati (peraltro, senza che l’esito referendario fosse quello sperato dalle forze dell’allora maggioranza), imbrigliando la contrattazione effettivamente indirizzata a destinare le risorse reperite a fatica per aumenti degli stipendi, senza spazio per risorse connesse a risultati.
Per questo motivo ha ragione anche la Corte dei conti: afferma il vero quando il parere delle Sezioni Riunite sottolinea che il contratto risulta “deludente” perché “le risorse disponibili risultano utilizzate pressoché esclusivamente per corrispondere adeguamenti delle componenti fisse della retribuzione” sicché “l’incremento del fondo per la retribuzione accessoria, limitato agli enti diversi da quelli appartenenti all’ex comparto Ministeri, deriva, infatti, esclusivamente da un’operazione volta a rendere omogenea la dinamica della retribuzione stipendiale”. È un dato oggettivo.
Di fatto, la nuova stagione contrattuale è un’occasione mancata per attuare le previsioni della riforma-Brunetta, risalente al 2009, che, come scrive sempre la Corte dei conti, chiamava la contrattazione collettiva a una “sostanziale ridefinizione delle componenti variabili della retribuzione, da destinare prevalentemente a finalità realmente incentivanti e premiali”. Tuttavia, tra le due ragioni di sindacati e magistratura contabile, si erge il grande assente: la definizione chiara di un sistema di valutazione.
Parlare in astratto di incentivazione reale e premiale per il risultato, come troppo spesso si fa, non porta da nessuna parte. La riforma-Brunetta, ma con essa anche la riforma-Madia, è fallita proprio perché pretende (giustamente) merito, performance e valutazione, ma non fornisce alcun elemento per poter valutare la produttività del lavoro pubblico. Non è un caso che la Civit (Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche), costituita dalla riforma Brunetta proprio per elaborare sistemi di valutazione e reperire indicatori utili a questo scopo, abbia fallito il suo compito e sia stata chiusa.
Che occorra valutare e premiare il “merito” ciascun lo dice, ma cosa valutare nessun lo sa. Né magistratura contabile o sindacati o Governo o altre autorità pare siano realmente intenzionati a saperlo. Così, la valutazione e il merito sono lasciate all’autonomia e all’improvvisazione di ciascuna delle circa 20.000 amministrazioni: tra queste molte adottano sistemi seri, molte altre nessun sistema o sistemi estremamente fumosi per poi assegnare tutto a pioggia. Nessuno che fornisca standard, benchmark, obiettivi confrontabili, comuni e misurabili.
Eppure, il sistema vi sarebbe: basterebbe adattare alle specificità delle amministrazioni pubbliche i contenuti del decreto del Ministero del lavoro 25 marzo 2016, attuativo dell’articolo 1, comma 182, della legge 208/2015, che ha reintrodotto gli sgravi per il salario “di produttività” delle aziende private. Tale decreto in allegato approva una scheda di monitoraggio delle caratteristiche dei contratti aziendali, per valutare se essi abbiano i requisiti perché le aziende possano accedere agli sgravi. La Sezione 6 di questo modulo, titolata “Indicatori previsti nel contratto” è molto istruttiva, perché contiene 19 possibili indicatori:
1) Volume della produzione/n. dipendenti
2) Fatturato o VA di bilancio/n. dipendenti
3) MOL/VA di bilancio
4) Indici di soddisfazione del cliente
5) Diminuzione n. riparazioni, rilavorazioni
6) Riduzione degli scarti di lavorazione
7) % di rispetto dei tempi di consegna
8) Rispetto previsioni di avanzamento lavori
9) Modifiche organizzazione del lavoro
10) Lavoro agile (smart working)
11) Modifiche ai regimi di orario
12) Rapporto costi effettivi/costi previsti
13) Riduzione assenteismo
14) N. brevetti depositati
15) Riduzione tempi sviluppo nuovi prodotti
16) Riduzione dei consumi energetici
17) Riduzione numero infortuni
18) Riduzione tempi di attraversamento interni.
19) Riduzione tempi di commessa.
Non pare impossibile adattarne una decina agli uffici pubblici fissando degli standard, per passare davvero a una valutazione seria dell’azione amministrativa e, così, eliminare qualsiasi equivoco o alibi all’applicazione di norme finalizzate a valorizzare il merito. Senza dimenticare, però, che allo scopo occorrono risorse, di non facilissimo reperimento.