Quando si guarda la situazione generale del mercato del lavoro di un Paese, è il tasso di occupazione complessivo quello che più aiuta a fare una valutazione. Eurostat ha di recente pubblicato i dati relativi al 2017 per i paesi dell’area europea e l’Italia risulta ancora molto indietro. Il tasso di occupazione medio europeo per la fascia di età 20-64 anni ha raggiunto il 72,2% registrando un più 1,1% rispetto al 2016. Il nostro Paese risulta penultimo nella classifica con il 62,3%. Ci segue solo la Grecia che è al 57,2%.
Ricordando che l’obiettivo che l’Europa si è assegnata per il 2020 è il 75%, il nostro andamento rende tale obiettivo fuori dalla nostra portata. Dovremmo avere una crescita dell’occupazione di oltre il 4% annuo per tre anni per ottenere tale risultato. L’obiettivo fissato dall’Europa per l’Italia si ferma infatti al 67% per il 2020. Ma anche questo traguardo richiede che si aumenti il tasso di occupazione con velocità più che doppia rispetto all’andamento attuale.
La crescita dell’occupazione in Italia è certamente in corso. I dati congiunturali annuali da oltre 18 mesi hanno sempre segno positivo e fra il 2016 e il 2017 vi è stato un aumento dello 0,7% dell’occupazione complessiva. Negli anni precedenti era stato di poco inferiore, ma possiamo dire che oggi si è tornati a un numero di occupati superiore a quello del 2008, anno di massimo prima degli effetti della crisi economica. A contribuire di più alla crescita del tasso di occupazione sono state la componente femminile (+0,9% quest’ultimo anno) e gli occupati over 55 (+1,9%). Quest’ultimo dato è certamente frutto della riforma pensionistica che ha allontanato per molti lavoratori l’età del ritiro.
La componente femminile dell’occupazione, pur registrando una crescita superiore alla media, lascia il nostro Paese sempre in penultima posizione in classifica per quanto riguarda il gap di genere. Le donne occupate risultano, per la fascia di età 20-65 anni, appena il 52,5%. Sono quasi 20 punti meno del tasso complessivo e segnalano uno degli squilibri strutturali più profondi del nostro mercato del lavoro.
È evidente che per affrontare in modo strutturale il problema di un tasso di occupazione così basso non si può che pensar a una politica economica di sviluppo che ampli la base produttiva del Paese e permetta di assorbire la disoccupazione esistente e riporti in attività parte di quanti si sono resi inattivi perché scoraggiati da un mercato del lavoro incapace di rispondere alle loro aspettative.
Vi è poi la capacità politica di operare perché la domanda di lavoro esistente non si scontri con una formazione dell’offerta di lavoro che non corrisponde alle esigenze dei settori produttivi.
Se è vero che vi sono circa un milione di possibili posti di lavoro che non trovano lavoratori con competenze adeguate, ciò va ricondotto a quel ritardo storico per cui non abbiamo canali di formazione professionali adeguati e flessibili. È inutile pretendere che il nostro sistema scolastico possa adeguarsi ai cambiamenti veloci di questi ultimi anni. Mantiene una struttura coerente di formazione generale sia tecnica che umanistica e non può che avere in percorsi universitari, o tecnici superiori, la sua logica conclusione di percorso. Solo negli ultimi anni, con l’introduzione del sistema duale, si è affrontato il tema della formazione professionale con percorsi definiti con le imprese e nelle imprese. Questo modello, in uso nei paesi con minore tasso di disoccupazione giovanile, permette di formare figure professionali adeguate ai mutamenti produttivi e crea un percorso parallelo a quello scolastico per figure professionali di atto livello tecnico specialistico.
A questo ritardo storico del nostro sistema formativo va aggiunta la tradizionale avversione alla flessibilità contrattuale che caratterizza il nostro Paese. Certo il Jobs Act ha rotto con il blocco creato dall’articolo 18 che tutelava chi già era nel mondo del lavoro e “teneva fuori” i new entry. Ma oltre all’art. 18 pesa l’opposizione a far sì che si diffondano forme contrattuali adatte a tutelare tutte le forme di prestazione professionale. È ancora forte l’opposizione alla diffusione del part-time, così come la revisione di voucher per il lavoro occasionale ha cancellato tutte le tutele per molti lavoretti.
I paesi con tassi di occupazione alti e con gap limitato fra uomini e donne sono quelli dove vi sono certo servizi sociali sviluppati a sostegno delle famiglie, ma insieme a un alto ricorso al part-time e a contratti che tutelano lavori, lavoretti, lavoro saltuario, lavoro intermittente e così via. Pensare che il lavoro, nelle diverse età della vita, possa essere sempre ricondotto solo al contratto a tempo indeterminato rischia di essere oggi più un limite che un’opportunità per sviluppare lavoro tutelato per tutti.
Non è un caso che a fare da sfondo a un mercato del lavoro come il nostro che mantiene forti rigidità vi sia un mercato del lavoro nero che l’Istat stima superiore al 10% della forza lavoro. Se si vuole affrontare anche questo problema in modo produttivo non si può fare ricorso solo a nuovi strumenti di repressione. Assieme a questi vanno introdotte regole ex lege o contrattuali che rendano favorevole l’emersione sia del Pil prodotto in nero che del lavoro.
Fissare un salario minimo che tenga conto del costo della vita locale e promuovere investimenti per aumentare la produttività sono misure che possono marciare assieme. Servono per creare più lavoro e far crescere la base produttiva del Paese: ciò che serve per produrre un salto nel tasso di occupazione.