È ormai chiaro che quella che stiamo vivendo è una crisi che ha al suo centro la globalizzazione e che si sta sviluppando cambiando profondamente i tradizionali punti di riferimento. Il fatto che gli Stati Uniti siano arrivati sull’orlo del fallimento finanziario costituisce solo l’ultima dimostrazione di una crescente fragilità del sistema che si è sviluppato negli ultimi anni.
E insieme a questo anche altri fattori epocali, come la tumultuosa crescita della Cina o la complessa transizione nel mondo arabo nel Nord Africa e nel Medio Oriente, costituiscono elementi che possono insieme suscitare grandi speranze e crescenti pericoli. Le speranze nell’affrancare un sempre maggior numero di persone dal dramma della povertà, i pericoli nel possibile affermarsi di un integralismo religioso contrario per sua natura alla tolleranza e alla condivisione.
Di fronte a queste dinamiche si può rispondere con il rischio dell’utopia, cioè il pensare che solo un Governo globale possa dare una risposta ai problemi di regole, di equilibri, di equità che si impongono a livello globale. Ma si può anche rispondere costruendo una fiducia che non nasca da un’imposizione dall’alto, ma che si realizzi attraverso una partecipazione dal basso con una crescita della responsabilità delle persone e delle comunità locali.
Un convinto assertore di questa via è uno tra i più giovani, ma anche tra i più autorevoli politologi della nuova generazione: l’indiano Parag Khanna, direttore della Global Governance Iniziative per conto della New American Foundation. Già autore negli anni scorsi dell’accattivante analisi “I tre imperi”, in cui analizzava la complessa evoluzione dei sistemi politici dopo la caduta del muro di Berlino e l’avvento di nuove realtà come l’India e il Brasile, Khanna continua nella sua analisi con il libro “Come si governa il mondo” (Ed. Fazi, pagg. 360, € 19).
Sull’onda della crisi finanziaria globale e senza dimenticare gli enormi squilibri che ancora contraddistinguono il pianeta, Khanna offre tuttavia una visione profondamente costruttiva proprio sulla base della crescente possibilità di comunicare, di partecipare, anche di protestare. Una visione che nella sua logica ricorda il Rinascimento e che nella storia più recente si rifà alla figura di Jean Monnet, uno dei grandi padri di un’Europa capace di superare i vecchi confini e di costruire un’unità dei popoli dove fino a pochi anni prima avevano marciato gli eserciti in guerra.
E Khanna ricorda come nella visione di Monnet, così come nella realtà, l’Europa non debba essere considerata un’istituzione, ma un processo, una dinamica che non deve fermarsi, ma che può e deve costituire un principio di aggregazione per realizzare una solidarietà che vada oltre lo Stato e punti a un livello globale della politica. “Stiamo vivendo – scrive Khanna – la fase aurorale di una nuova età nella quale ogni individuo e ogni comunità possiedono la capacità di perseguire autonomamente i propri fini. La rivoluzione informativa ha messo ogni soggetto nella condizione di far valere la propria autorità, aprendo la strada a un mondo basato sulla reciprocità tra infinite comunità di vario genere e dimensione”.
In questo mondo di “sovranità multiple” c’è un ruolo per gli Stati, ma anche per le organizzazioni non governative, c’è un compito per l’Onu e la Wto, ma anche per le aggregazioni spontanee che stipulano accordi e allargano i mercati. La globalità non diventa una nuova gabbia, ma uno sviluppo delle potenzialità. In pratica una sussidiarietà globale.