La retorica è il peggior nemico della pratica. La dimostrazione è tutta nella realtà delle piccole e medie imprese in Italia. Non esiste analisi economica che non sottolinei il ruolo determinante delle Pmi, non esiste promessa politica che non garantisca attenzione e interesse, non esiste osservazione sociologica che non metta in risalto la specificità italiana in questa dimensione. Ma la realtà, pur con qualche eccezione, è stata costantemente diversa: l’impresa è il più delle volte considerata un fastidioso accidente, utile solo per spremere imposte e tasse, spesso da ostacolare nelle sue pretese di crescere e ampliare impianti e capannoni.
Qualche significativa e soprattutto concreta eccezione comunque esiste. Ne è prova l’approvazione in Parlamento, lo scorso anno, del cosiddetto “Statuto delle imprese”, una legge “per la tutela della libertà d’impresa” voluta e sostenuta da un folto gruppo bipartisan di parlamentari. Un ruolo di primo piano è stato quello svolto da Raffaello Vignali, che ha ora raccolto in un libro (“La grandezza dei piccoli”, ed. Guerini e associati, pagg. 195, € 18) non solo la filosofia di un impegno politico estremamente concreto, ma anche un’analisi appassionata della difficile realtà in cui si muove la piccola e media impresa.
Vignali, che è stato presidente della Compagnia delle Opere ed è vicepresidente della Commissione per la attività produttive, testimonia la sua passione verso i protagonisti di questa comunque difficile dimensione. “Si parla spesso – sottolinea Vignali – di imprese e di sviluppo, ma non si dice la cosa più importante riguardo a ciò: da dove nascano e chi ne sia l’artefice, si ignora il soggetto dell’economia”. Perché le imprese non sono solo numeri, entità giuridiche, elementi della produzione, anelli del ciclo economico; le imprese sono soprattutto persone. Gli imprenditori, capaci di unire il rischio e la creatività, la visione dei mercati e la capacità organizzativa. E insieme i lavoratori con la loro volontà di costruire, collaborare e partecipare.
Non si tratta di una riformulazione del “piccolo è bello”, si tratta del riconoscimento di una realtà che ha grandi potenzialità e che chiede soprattutto di avere meno vincoli, meno oneri, meno pastoie burocratiche per poter esprimere le potenzialità “positive e vitali”.
Come scrive Dario di Vico nell’introduzione “il ceto medio italiano […] non è riuscito a sviluppare una sua ambizione, una sua costante tensione al miglioramento. La domanda diventa se ciò che non è avvenuto in tempo di crescita (seppur contenuta) possa accadere in tempo di Grande Crisi”. Non è, ovviamente solo una domanda, è soprattutto l’auspicio che le difficoltà possano portare a valorizzare i tanti lati costruttivi, a riconoscere la grande dignità insieme dell’imprenditore e del lavoratore.
Per questo sono importanti le leggi, è importante la politica industriale, è importante rimuovere i lacci e laccioli che tengono imbrigliate le imprese; ma ancora più importante è che, soprattutto nei giovani, trovi spazio una reale cultura dell’impresa e del lavoro troppo spesso dimenticata. Affermando nell’impresa e nel lavoro la grande dignità di ogni persona.