E’ molto stretta, ma c’è ed è ben visibile, la strada per rimettere l’Italia sui binari della crescita. E’ tutta in quella difficile e complessa opera per mantenere le condizioni in cui la piccola impresa possa continuare a essere un fattore di forza nell’attuale dinamica dei mercati internazionali. Non si tratta solo di incentivi reali, di fisco meno oppressivo, di semplificazioni amministrative, di migliore accesso al credito: tutti elementi indispensabili, ma non sufficienti. Quello che è necessario è il rimettere al centro il ruolo e il valore dell’imprenditore-famiglia nella sua realtà personale prima che economica, nei suoi valori di fondo prima che sui numeri, nella sua trama di relazioni prima che sulla rigidità dei contratti.
L’Italia ha creato nei secoli una realtà produttiva che non può essere letta con gli schemi dei modelli matematici, ha dato vita a una dimensione dei distretti industriali che non risponde a nessuna regola delle teorie economiche che vanno per la maggiore. Non c’è nessuna motivazione scientifica per cui il settore dei rubinetti si sia sviluppato attorno al lago d’Orta, quello delle pelli nel vicentino o quello dei mobili in Brianza: c’è alla base l’intuizione imprenditoriale che si sposa con l’appartenenza alla comunità locale e che si muove con la volontà di mettere a frutto i talenti della famosa parabola.
Sì, perché, come spiega Giulio Sapelli nel suo ultimo libro (“Elogio della piccola impresa”, Ed. Il Mulino, pag. 126, € 11) “lo spirito di comunità e di riflessione sulla persona sono state formidabili forze creatrici dell’impresa. E l’impresa di cui si parla è la quintessenza della glorificazione possibile della persona cristianamente e cattolicamente intesa”. “Non solo – aggiunge Sapelli – il cattolicesimo ha elevato le sue cattedrali e ha visto sorgere a fianco di esse le creazioni imprenditoriali delle aggregazioni umane associate al lavoro, tanto nelle imprese capitalistiche quanto in quelle cooperative, come l’esperienza non solo italiana, ma mondiale dimostra”.
La realtà italiana è la dimostrazione più evidente di come sia senza fondamento la fin troppo esaltata teoria di Max Weber secondo cui sarebbe stata l’etica protestante a far sviluppare lo spirito del capitalismo nella vecchia Europa. Una teoria sbagliata due volte: in primo luogo perché il sistema del libero mercato e dell’economia d’impresa è nato e si è sviluppato, nelle botteghe artigiane così come nelle arti e mestieri, ben prima che Martin Lutero nel 1517 affiggesse le sue 95 tesi sulla porta della Chiesa di Wittemberg, in secondo luogo perché nell’Italia del secolo scorso è stato il fondamento cattolico della dimensione popolare a determinare il terreno fertile su cui si è sviluppata la rete delle imprese famigliari.
Nei primi decenni del Secondo dopoguerra si sono infatti create in Italia le condizioni ottimali per lo sviluppo delle piccole imprese: con la crescita dei redditi, l’espansione dei consumi, la disponibilità di manodopera per le migrazioni dalla campagna alle città e dal Sud al Nord, l’affermarsi di grandi complessi industriali che avevano bisogno di subforniture flessibili e innovative. Condizioni che tuttavia si sono progressivamente esaurite, ma le piccole imprese hanno saputo cambiare, adattarsi alle nuove opportunità, sposare l’innovazione tecnologica con il design; molte sono rimaste ferme, altre sono nate per la volontà inesauribile di intraprendere.
E allora il punto principale è quello di non soffocare la speranza, di sostenere la possibilità delle imprese di mettersi in rete, di collaborare, di trovare terreni di confronto e di scambio di esperienze.