I cinesi di JD.com mettono gli occhi su Ceconomy e arrivano a MediaWorld e Uniero. Ma le aziende di Pechino rispondo al Partito comunista

Il colosso dell’e-commerce JD.com si compra i tedeschi di Ceconomy, società che contiene MediaMarkt e Saturn, che a loro volta permettono di mettere piede in MediaWorld e avere un accesso in Unieuro attraverso una società di cui i tedeschi possiedono una quota societaria.

Una matrioska che stavolta non è russa ma cinese e che conferma la volontà di Pechino di espandersi economicamente in Europa e in Italia. I negoziati per l’acquisizione sono in fase avanzata.



Il problema, però, osserva Massimo Introvigne, sociologo fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, è che molte aziende cinesi sostanzialmente sono un’emanazione del Partito Comunista Cinese. Per questo i Paesi europei, Italia compresa, devono fare attenzione a queste manovre: ne va anche della loro indipendenza.



I cinesi di JD.com entrano in pieno nella distribuzione elettronica europea: cosa significa questo passo?

I cinesi, in linea di principio, comprano un po’ di tutto, dalle automobili all’alimentare, alla distribuzione. Non è totalmente sorprendente quello che si legge, perché c’è comunque una strategia: quando Pechino ha dei surplus, li investe acquistando aziende straniere.

Il problema è a valle: la Cina persegue i suoi interessi, il che in assoluto è normale, ma bisogna vedere se queste acquisizioni sono anche nel nostro interesse. E probabilmente non lo sono. L’attuale governo italiano, a differenza di quelli che lo hanno preceduto, ha cercato di mettere un freno e di rendere queste acquisizioni più difficili, ma probabilmente occorre ampliare la nozione di aziende strategiche protette.



Sono strategiche anche le aziende della distribuzione elettronica?

Anche loro permettono di controllare la struttura nervosa di un Paese e questo è un primo aspetto di cui i governi europei dovrebbero tenere conto. In Francia e in Germania qualche cosa si sta facendo. Un acquirente cinese, infatti, non è la stessa cosa di un acquirente francese. Quando siamo di fronte a Paesi non alleati, non democratici, sappiamo che, attraverso le aziende, si persegue una strategia di soft power, una strategia politica con implicazioni anche militari.

I cinesi continuano nella loro politica “predatoria”?

Le aziende cinesi non sono aziende comuni. C’è un libro che sta avendo grande successo negli Stati Uniti, di cui è autrice Eva Dou, una delle corrispondenti del Washington Post che copre la Cina. Il volume si intitola House of Huawei, la casa di Huawei.

Ci dice che è del tutto sbagliato studiare Huawei come noi studieremmo Stellantis o Microsoft, perché non è una società privata, ma un’arma geopolitica del Partito Comunista Cinese. Questo vale anche per molte altre società, nelle quali il partito è talmente presente che dobbiamo considerarle come una sorta di ulteriore ministero nell’apparato del governo cinese o, se vogliamo, un dipartimento del Partito Comunista Cinese.

Una tesi giornalistica o una verità alla luce del sole?

Appena è uscito questo libro, anziché arrabbiarsi, il CEO di Huawei ha rilasciato un’intervista al giornale del Partito Comunista Cinese, il Quotidiano del Popolo di Pechino, confermando che si considera un uomo che lavora per il partito, non un capitalista nel senso borghese del termine, ma un membro del Partito Comunista Cinese di cui Huawei è al servizio. Quando sua figlia venne arrestata in Canada, la Cina si mosse come se avessero bloccato un diplomatico.

Le società cinesi sono tutte così?

Tantissime aziende funzionano allo stesso modo. Anzi, ci sono provvedimenti di Xi Jinping che, all’interno delle direzioni aziendali, danno più potere alle cellule del partito rispetto ai cosiddetti proprietari, che il partito stesso può far saltare in ventiquattro ore. Tutto questo ci dice che, quando siamo di fronte alle aziende cinesi, non le possiamo trattare come se fossero americane o tedesche.

Il nuovo clima con gli Stati Uniti e la “guerra dei dazi” influiscono sulla rinnovata intraprendenza cinese negli acquisti di società straniere?

Dalla lettura della stampa cinese, le cui notizie sono costruite per più del 90 per cento su veline del ministero della Propaganda, rielaborate in diversi modi, emerge che chi scrive le veline non si fida di Trump, che viene descritto come imprevedibile e soggetto a sbalzi di umore politico.

Nessuno, insomma, scommette un dollaro sul fatto che il presidente americano, a un certo punto, non possa cambiare idea. Recentemente è stato autore di un paio di gesti su Taiwan che sono piaciuti: non ha concesso il transito al presidente di Taiwan e ha cancellato un incontro con il ministro della Difesa. I cinesi lo leggono come parte della trattativa commerciale con loro.

Però nessun organo di informazione cinese, costruito, appunto, sulla linea del ministero della Propaganda, che a sua volta segue le istruzioni di altri ministeri, si fida troppo del presidente americano: non dice gatto perché non pensa affatto di averlo nel sacco.

(Paolo Rossetti)

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