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Home » Lavoro » LE SFIDE DEL LAVORO/ La domanda sul significato che chiede nuove relazioni

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LE SFIDE DEL LAVORO/ La domanda sul significato che chiede nuove relazioni

Francesco Seghezzi
Pubblicato 22 Agosto 2025
Ansa

Ansa

Al Meeting di Rimini oggi viene presentata la mostra "Ogni uomo al suo lavoro", riguardante una domanda crescente

Il tema del lavoro è sempre più al centro del dibattito pubblico e, allo stesso tempo, la sua narrazione sta lentamente mutando. Non che i numeri del mercato del lavoro contino meno, sebbene in un contesto di crescita, ma questi paiono sempre più relegati (o forse lo sono sempre stati) a tematica da addetti ai lavori.


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E allora di che lavoro si parla e sempre di più? Di quello quotidiano, che tutti facciamo, che occupa la gran parte delle nostre giornate, delle nostre energie e dei nostri pensieri. Soprattutto dopo il grande reset mentale del Covid 19 assistiamo a una nuova tematizzazione del lavoro che vede negli aspetti critici la sua componente centrale.


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Il lavoro viene descritto, come fossimo tornati nell’Antica Grecia, quasi solo come sofferenza, come fatica necessaria per poi vivere una vita che inizierebbe con la timbratura del cartellino d’uscita (con il problema che oggi i cartellini sono sempre meno e i confini tra lavoro e non lavoro più labili). Spesso ci si consola dicendo che questo è un problema soprattutto dei giovani, ma è una realtà di tutti.

Il tema del senso del lavoro, del suo significato, perché di questo, in fondo, stiamo parlando, è un problema di tutti. È come se ci si fosse improvvisamente e violentemente svegliati da un torpore che ci aveva visto lavorare e lavorare senza un vero interrogarsi sullo scopo, e il riemergere di questa domanda radicale (che poi si declina in tante altre) ha trovato molte persone spiazzate. Al punto che la soluzione è sembrata essere evitare queste domande concentrandosi su quelle dimensioni del lavoro più materiali e riducendo il più possibile il coinvolgimento.


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Con questa chiave di lettura si possono spiegare sia l’aumento delle dimissioni che si è tradotto in un cambio di lavoro per migliori condizioni economico-organizzative (e non certo per un ritiro dal lavoro, come tutti i dati dimostrano) sia il c.d. quite quitting, ossia l’atteggiamento di chi decide di fare il minimo indispensabile richiesto al lavoro nell’intenzione di ridurre sempre meno ogni coinvolgimento personale ed emotivo.

Ma pensiamo anche a un certo modo di concepire il lavoro da remoto non come un vero cambiamento organizzativo, ma come una semplice traslazione del luogo di lavoro dall’ufficio alla casa. Questo esaltando spesso una dimensione di solitudine che avrebbe, illusoriamente, reso il lavoro meno stressante e più efficiente, salvo poi rischiare di generare isolamento forzato e un impoverimento del lavoro stesso.

Il fatto che il lavoro continui a essere al centro delle discussioni, da quelle tra amici e conoscenti a quelle sulla stampa, ci mostra però che queste domande non possono essere rimosse. Il tema del significato del lavorare, oggi, sembra anzi nascondersi in tutti i pertugi che aprono criticità e problemi. Il senso del lavoro è un’urgenza che sta alla base tanto della discussione sulla conciliazione (o dialogo?) tra vita e lavoro quanto a quelle sui modelli organizzativi. Così come le relazioni con colleghi e superiori, che possono essere sia faticose che preziose, hanno a che fare con la dimensione del senso.

Se questo tema pone un livello ultimo, per il quale il contesto specifico in cui si lavora ha un peso relativo, ci sono anche molte declinazioni della domanda di senso che sono fortemente impattate dagli ambienti di lavoro. Per questo, in un momento nel quale la domanda (sebbene magari non espressa in modo chiaro) si pone e il contesto tecnologico, di mercato, organizzativo, culturale è in profonda trasformazione è d’obbligo trovare forme e luoghi per porsela, possibilmente insieme ad altre persone.

Se questo non accadesse, la conseguenza sarebbe quella, nel caso migliore, di trovarsi a lavorare (e questo vale anche per le imprese) tra persone “scisse”, per recuperare il titolo di una recente serie tv dedicata a questo tema. In quello peggiore di continuare ad assistere a continue transizioni tra un lavoro e l’altro, con tutte le conseguenze che questo comporta.

La responsabilità è grande ed è di tutti, dalle imprese ai singoli imprenditori, passando per il sindacato. Una pista di lavoro, in conclusione, è quella di recuperare l’idea di lavoro come relazione, come rapporto con l’altro e con la realtà. L’illusione del lavoratore come monade ha lasciato troppi morti lungo la sua strada e ha mostrato, da tutti i punti di vista, i suoi limiti.

Riscoprire la relazione come strada per il significato implica, per lo meno, tentare un strada diversa dove la realizzazione di sé passi anche e soprattutto da ciò che è fuori di sé, come possibilità e come responsabilità, anche sociale e politica, perché il proprio lavoro ha un posto specifico nel mondo, ha delle conseguenze, e non può essere cieco davanti al lavoro, o al non lavoro, degli altri. Vale la pena provare, insieme.

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