La Giornata Mondiale dell’Ambiente ci offre uno stimolo in più per riprendere alcune considerazioni a seguito della lettura di un breve saggio, appena uscito da Jaca Book, dal titolo molto promettente: “Ecosofia – La saggezza della Terra”. L’autore è il teologo (definizione non del tutto adeguata) indiano-catalano, Raimon Panikkar, scomparso nel 2010; di lui l’editrice milanese sta pubblicando l’Opera Omnia, dove si intrecciano i grandi temi del pensiero del ‘900 affrontati con l’approccio, che ha fatto molto discutere, di uno che ha partecipato di una pluralità di tradizioni a prima vista contrastanti: indiana ed europea, indù e cristiana, scientifica e umanistica.
Probabilmente lui non si sarebbe sentito a suo agio nel clima col quale questo 44esimo World Environment Day sarà celebrato domani dall’Onu, che l’ha lanciato, scegliendo la platea di Expo 2015 come luogo privilegiato e punto di riferimento mondiale. La riflessione di Panikkar infatti scava molto più a fondo nel rapporto tra uomo e natura, esprimendo la convinzione che l’attuale crisi ambientale «non è un problema ecologico né economico né politico» ma ha la portata delle grandi questioni metafisiche.
La sua critica al modo col quale l’uomo moderno – ma lui insiste nel dire “uomo occidentale” – ha trattato l’ambiente raccoglie anche alcuni temi tipici dell’ambientalismo: l’incapacità dell’homo technologicus di seguire i ritmi della natura, l’affermarsi di un modo sempre più artificiale, l’inadeguatezza delle scienze tradizionali nell’afferrare la complessità dei fenomeni naturali, l’allargarsi della forbice tra ricchi e poveri e così via. Ma allo stesso tempo contesta i movimenti ecologisti che «continuano a operare sotto l’egida della cosmologia dominante», prende le distanze dallo stesso concetto, tanto sbandierato, di “sviluppo sostenibile” e non condivide neppure il richiamo della “ecologia profonda”.
Il suo è un discorso sull’uomo: «Non è la Terra ad aver bisogno di cure. Siamo noi i malati. Abbiamo bisogno di ecosofia». E l’ecosofia per Panikkar è «la vera sapienza della Terra, non semplicemente un know-how (umano) di tipo tecnico»; indica la saggezza di «chi sa ascoltare la Terra e agire di conseguenza». Cita addirittura san Bernardo di Chiaravalle, quando scriveva: “gli alberi e le pietre ti insegneranno ciò che non potrai mai udire dai maestri”, a sostegno dell’idea che «la Natura è viva e noi dobbiamo prestarle ascolto». Ma non accetta quella particolare forma di ascolto messa in campo dalla scienza; anzi non la considera una forma di ascolto (come invece ritiene chi scrive): ne vede riduttivamente solo gli aspetti della quantificazione e del controllo che mortificano la ricchezza della natura e ne stigmatizza l’esasperato specialismo e il potere sulla vita dell’uomo che ne deriva.
Se sono del tutto condivisibili passaggi come questo: «Non contesto certo i risultati della scienza. Critico l’estrapolazione del metodo scientifico ad altre aree della realtà», è invece difficile trovare una sintonia nel proseguimento delle sue analisi, soprattutto quando arriva ad affermare che «non ci servono gran parte dei dati e delle abilità di cui la scienza moderna ci imbottisce il cervello e il cuore»; o anche quando sostiene che «La ecosofia taglia il nodo gordiano del nostro moderno invischiamento scientifico rendendo secondarie o irrilevanti gran parte delle questioni scientifiche». Risulta ancor più impegnativa la sua visione “cosmoteandrica” (teo-antropo-cosmica) – certamente un esito della sua pluriforme appartenenza culturale e religiosa – dove la realtà è concepita in tre dimensioni reciprocamente irriducibili ma che si presuppongono vicendevolmente: Cosmo, Uomo, Dio. Sono tre dimensioni costitutive della Realtà, «dove il centro non sta da nessuna parte e nessuno la fa da padrone» e dove «tutto è collegato a tutto».
Non è necessario essere raffinati teologi per cogliere le difficoltà presentata da una simile concezione che pone tutto sullo stesso piano e scivola facilmente verso il panteismo (nel quale però Panikkar non si riconosce); d’altra parte il messaggio della ecosofia si regge su questa visione e ciò pone un’ipoteca su una più ampia possibilità del suo accoglimento. Restano comunque, in queste dense pagine, altri messaggi che forse nelle celebrazioni della Giornata dell’Ambiente – e anche dopo – sentiremo poco circolare. Come l’idea che «la liberazione dell’Uomo dalla camicia di forza della tecnocrazia può avvenire attraverso l’arte, la techne, non la macchina… io non sono affatto contrario alle strumentazioni che, per così dire, costituiscono appendici dell’Umano. Anzi, dove sono finiti i veri “ingegneri”, in grado di inventare tecniche che estendano – non soppiantino – l’Uomo e l’Umano?».
E infine l’affermazione che «l’autentica conoscenza è impossibile senza amore… Non è questione di vagheggiare un’idea romantica della Natura. Proprio no. E neppure di vedere noi stessi come esseri puramente naturali, indifferenziati, perché la natura umana è appunto cultura, il che implica “coltivazione”. Coltivare significa prendersi cura, rendere più bello, portare alla perfezione, non tramite il possesso e il dominio ma attraverso una amorosa plasmazione dell’opera del Creatore, e custodendola nell’atto stesso di plasmarla. Si tratta di un atteggiamento del tutto diverso».