È sbagliato lamentarsi dei tempi cattivi inneggiando al passato. Ma se questo è tipico degli adulti, il cuore dei giovani attende solo di essere ridestato
Caro direttore,
l’editoriale di Fernando De Haro pubblicato ieri su queste pagine mi ha molto provocato. De Haro ha ragione. Se c’è una cosa che è davvero insopportabile (e perfettamente inutile) è l’eterna litanìa di lamentele verso la cattiveria dei tempi – e quindi, soprattutto, dei giovani, che quei tempi vivono, interpretano, preconizzano.
Anche perché incredibilmente ogni tempo sembra essere peggiore del precedente agli occhi di chi lo vive, ogni tempo sembra possedere tratti unici che lo candidano ad essere il tempo peggiore di tutti i tempi. Ed è bello – e vero – quando dice che a causa di questa posizione sempre difensiva non sappiamo più dialogare con i nostri tempi (e dunque con i giovani). Non sappiamo più coglierne il grido che lanciano e dunque l’invito che sono per noi, l’opportunità di crescita e trasformazione che sono per noi adulti. Siamo noi che in fondo in fondo abbiamo paura della novità che portano.
Però un passaggio mi lascia perplesso – che è un po’ lo scivolamento che noto in tutte queste letture che, per sintesi, chiamerei “giovaniliste” – ed è quello in cui si accusa “noi”, gli adulti, gli educatori (e qui dentro metto anche la Chiesa), i figli del ’68, di parlare troppo ai giovani “di sacrificio, di coerenza, di morale”, come se queste fossero parole “brutte”, o comunque “vecchie”, poco persuasive e non più capaci di intercettare il grido di bellezza lanciato dai ragazzi, che invece cercano qualcosa di più moderno e avvincente, qualcosa capace di dialogare con il loro mondo.
Io credo proprio che non sia così, anzi. Con i ragazzi ho la fortuna di passarci del tempo per lavoro e trovo in loro una grande fame e sete di “cose grandi”. Leggo nelle pieghe delle loro fatiche, nella selva oscura del loro disagio un grande bisogno, radicale, senza sconti, di legare la propria vita a qualcosa che duri. Qualcosa che chieda tutto.
Cercano avidamente la proposta di qualcosa che implichi tutta la vita, un ideale per cui spendere tutto e che sia più grande delle meschinità che gli offriamo, che poi implicitamente sono quelle che ci propone il nostro tempo: carriera, soldi, prestigio, potere. E allora il sacrificio – che è affermare l’essere, è affermare esistenzialmente un senso – diventa per loro una parola ed un’esperienza bellissima quando la vedono in atto.
Non è vero che i giovani ripudiano il sacrificio – e che dunque sia inutile proporlo. I giovani sono entusiasmati dal sacrificio, quando lo vedono sgorgare dalla pienezza. Dalla gioia. Quando lo vedono legato ad un ideale che prende la vita. E compiono un’esperienza di gratificazione quando inaspettatamente, afferrati, sono chiamati a compierlo.
Non è né una parola brutta, né una parola vecchia. L’Occidente ha cancellato dal proprio orizzonte la parola “sacrificio” perché la legge epidermicamente contraria al benessere (e dunque ai propri interessi), ma non ha potuto togliere dal cuore della gente la “voglia di sacrificio”, il desiderio di offrire sé per una storia più grande.
Qualche anno fa uscì una statistica allarmante che mostrava come un numero sempre più alto di giovani europei si arruolino in associazioni terroristiche islamiche e offrano la loro vita alla Jihad islamica. Trovano, evidentemente, in quel mondo, in quell’ideale distorto un residuo di quell’ineliminabile inclinazione e passione innata dell’uomo di spendere la vita – tutta – per qualcosa di più di quello che offre il mondo.
In piccolo mi ha colpito in tal senso l’esperienza vissuta con il conclave e la recente elezione del Papa. Credo sia molto indicativa. La Chiesa nell’epoca dell’intelligenza artificiale, dei tweet, delle chat di gruppo continua a proporre una strategia comunicativa millenaria. Assurda, se ci pensiamo. Anacronistica, diremmo. Di una lentezza inesorabile, un fumo che esce da un comignolo. E rispetto alle nostre abitudini ci chiede un sacrificio. Perché non la cambiano? Perché non si adeguano? Perché non la rendono un po’ più semplice, fresca e accessibile?
Astrattamente potrebbe sembrarci un mondo “muto” per i giovani. Senza video, foto, indiscrezioni in tempo reale, senza possibilità di interazioni live per gli utenti, senza televoto. Senza nulla che provochi in continuazione la nostra attenzione e ci tenga artificialmente desti come fanno i nostri smartphone.
Eppure un popolo – di giovani e meno giovani – continuano ancora oggi ad esserne scossi, provocati, interpellati… e si mettono lì, con il naso all’insù, ad aspettare quella fumata, ad aspettare il nuovo Papa. Mi ha colpito perché per me, inaspettatamente, è stata l’evidenza che la tradizione secolare proposta della Chiesa è antica ma non è morta. Quando fedelmente ancorata alle radici sa essere ancora viva.
È stata l’evidenza che il mondo (e dunque anche i nostri giovani) ha bisogno di paragonarsi con un’alterità, anche a volte ostica e incomprensibile, che si pieghi certo sul contemporaneo (e dunque sempre aperta all’ascolto) ma che però sfidi ad uscire da categorie già note. E il sacrificio, l’impegno in un sacrificio con qualcosa di grande è una dimensione che ci mette in rapporto con qualcosa che nel nostro cuore e in quello dei nostri giovani è sepolto, ma non è morto.
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