Maurice Blondel, lavorando in un mondo anticristiano, pensò di diventare prete. Ma poi capì che Dio, anche in quella circostanza, gli chiedeva altro (2)
Se la scelta di studiare negli ambienti del laicismo contemporaneo condusse Maurice Blondel a comprendere profondamente l’attitudine altrui nei confronti della vita e delle domande fondamentali dell’esistenza e ad attraversare per primo tutte queste grandi questioni, al contempo gli permise di ottenere la formazione e i riconoscimenti necessari per entrare nel mondo dell’università come professore.
Durante la brillante discussione della tesi di dottorato, Blondel si ritrovò comunque a dover difendere la sua natura di vero filosofo, rivendicando di non aver condotto la sua ricerca al di fuori del campo proprio della disciplina, pur essendosi occupato di religione, e ribadendo di non aver demolito o abbandonato il palazzo della ragione, ma anzi di averne voluto consolidare le fondamenta perché potesse tornare ad occuparsi delle questioni decisive per l’esistenza.
Tuttavia, seguì, per un breve periodo, il rifiuto delle istituzioni francesi a conferire una cattedra universitaria a un pensatore cattolico, ritenuto potenzialmente distruttivo per il metodo e la concezione dell’insegnamento promossi dalla Terza Repubblica.
In questo momento di sospensione, terminato il travaglio della stesura della tesi e in attesa che si aprisse qualche strada per il futuro, emerse la questione del discernimento sulla sua vocazione. Già un suo compagno della Normale aveva abbandonato gli studi per entrare in seminario e diventare prete.
Non era solo un interrogativo estemporaneo, dovuto alle circostanze in cui si trovava, ma era per lui necessario dare risposta a una serie di domande che non aveva mai potuto e saputo prendere in mano fino a quel momento.
Decise allora di ripercorrere le sue vicende interiori in una lunga lettera a padre Bieil del seminario di Saint-Sulpice.
Tutto in lui sembrava condurlo verso il sacerdozio; la formazione familiare, le convinzioni religiose e la sua natura riflessiva: “educato da una madre e una zia profondamente cristiane, circondato dall’affetto di buone suore, avendo per compagno di camminate un prete pieno di zelo, essendo di carattere serio e meditativo, mi sono ritrovato in possesso del pensiero del sacerdozio senza conoscerne bene l’origine”. Certamente lo attirava il fascino per l’ideale di perfezione e di grandezza racchiuso nella consacrazione, ma questo ideale sembrava rimanere per Maurice astratto e lontano.
Nella lettera riconosce il ruolo decisivo di questa prospettiva: “essa è stata per me una salvaguardia e una fonte di pietà. Mi ha fatto riflettere seriamente sulla vita cristiana. Mi ha fatto comprendere che non c’è nulla di buono se non quello che Dio vuole per noi”.
L’idea della vocazione lo aveva reso desideroso di indagare le ragioni dei nemici della fede, di comprendere come distinguere anche in essi un’apertura al Mistero e proprio il pensiero del sacerdozio gli aveva permesso di vivere in ambienti così lontani dalla sua esperienza. È l’ideale della vocazione che lo ha condotto fin dove è arrivato, ma è pur sempre per lui un ideale che teme di vedersi posticciamente applicato addosso.
È qui che Blondel capisce che la cosa più grande non è aspirare a una generica perfezione, ma fare la volontà di Dio qualsiasi cosa ci domandi: “ero inclinato a considerare ogni altro stato di vita come un’imperfezione, ma a poco a poco sono arrivato a comprendere che c’è una sola cosa assolutamente buona, e non è questa o quella dignità, questa o quella qualità eccellente, ma è la volontà, il disegno di Dio per ciascuno: compiere tutta la sua volontà, qualunque sia o dovunque ci ponga”.
Per questo Maurice arriva ad attribuire un ruolo provvidenziale a questa ammirazione per il sacerdozio che l’ha introdotto nella realtà dell’apostolato, della missione intellettuale presso i lontani, riconoscendo “l’efficacia permanente, il ruolo considerevole dell’idea del sacerdozio nella mia vita. Mai mi ha fatto pressione, non ho mai potuto né fissarla né fuggirla. Essa è rimasta in me senza che io potessi dire se fosse il segno certo di una vocazione o l’utile attrazione che mi ha spinto a un impiego generoso della mia vita.
Questa idea fissa, quando pretendo di afferrarla, mi sfugge; quando me ne allontano, essa mi riafferra, è tanto efficace nel momento in cui mi spinge a fare qualcosa di estraneo ad essa, quanto vaga e incerta quando si tratta di fare direttamente qualcosa per assecondarla”.
Per questo, essendogli posta davanti un’alternativa inevitabile tra l’essere prete e l’insegnamento come professore nelle università statali, poté scegliere per la seconda opzione senza tradire la prima, anzi vedendo nella sua decisione la possibilità più vera di svolgere quell’apostolato e quella missione che erano l’aspetto affascinante per lui del sacerdozio.
Poteva così, senza per questo essere chiamato a viverla, serbare gratitudine verso l’ipotesi della consacrazione come “una forza e una grazia di cui sento l’inestimabile valore; per il mio lavoro e nel mio insegnamento mi ha dato di essere quello che sono, di pensare quello che penso e di fare quello che ho fatto. Senza di essa non avrei mai sviluppato la visione filosofica che mi ha condotto ad aderire alla verità cristiana e che mi ha spinto ad andare fin dove la ragione può spingersi. Mai senza di essa sarei riuscito ad esercitare sui miei studenti o i miei colleghi l’azione per la quale Dio ha ben voluto talora servirsi visibilmente di me”.
Ecco la scoperta decisiva: Dio l’aveva guidato a prendere sul serio la sua vita, le sue domande, le sue azioni, attraverso un ideale altissimo, per fargli comprendere che questo non doveva mai diventare astratto, un fine a sé stante, ma solo un mezzo per introdurlo alla scoperta del suo vero posto nel mondo. Questo pensiero del sacerdozio non era un’illusione, ma neanche un fine, solo uno strumento per far comprendere a Maurice che era chiamato a vivere da laico, da professore nel mondo per riconoscere anche lì la presenza di Dio.
(2 – continua)
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