Filippo Ciantia è autore di "Bobo Torchiana. L'amore non fa mai male al prossimo", la storia di un medico milanese che ha vissuto la vita fino in fondo
“Certo il dolore di non vederci ‘fisicamente’ è grande, di non poterci accompagnare mano nella mano è struggente, ma Lui che può tutto mi farà più ancora che compagno della vostra strada… Insieme con Lui tutto è più bello, anche una vacanza, anche una gita, anche un distacco. Non abbandonate questa compagnia di amici: qui c’è Lui, state sicuri”.
Sono queste le parole che Francesco Torchiana, per tutti Bobo, scrisse alla moglie Nicoletta e ai figli dall’ospedale Humanitas di Rozzano, dove si curava per un tumore aggressivo che l’ha portato alla morte il 23 gennaio 2001, a soli 46 anni.
Ma in realtà Bobo, medico attento e generoso, la fede l’ha vissuta da sempre. Nato da una famiglia di solida tradizione artigiana, era un ragazzo vivace che coltivava diverse grandi passioni che lo accompagnarono per tutta la vita: la montagna, la chitarra, le canzoni (soprattutto milanesi), la bicicletta e la moto. Ma in tutto quello che faceva aveva chiara in sé la coscienza della vita come compito e, per svolgerlo fino in fondo, aveva lo sguardo sempre fisso a Colui che glielo aveva dato: Gesù Cristo.
Eppure visse la giovinezza negli anni della contestazione sessantottina e i gruppi anarchici l’attiravano proprio per la sua personale insofferenza alle regole, nella ricerca autentica della sua strada. “L’anarchia dal punto di vista antropologico costituisce una delle tentazioni grandi e affascinanti dell’umano pensiero. La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito: l’anarchico è l’affermazione di sé all’infinito e l’uomo autenticamente religioso è l’accettazione dell’infinito come significato di sé”.
Le parole di don Luigi Giussani, fondatore di Gioventù Studentesca, che poi diventerà Comunione e Liberazione, conquistarono il cuore di Bobo, che iniziò un cammino da “artigiano speciale”, capace di tessere rapporti con i fili dell’accoglienza e dell’amore. “Un artigiano dell’amicizia” insomma. Al liceo, con l’immancabile basco nero, i maglioni larghi e gli anfibi, sembrava davvero un anarchico, ma in realtà cominciò presto a impegnarsi nelle iniziative di GS, mantenendo sempre il suo carattere “scapestrato e controcorrente”, affascinante per la sua determinazione e vivacità.
Cantava canzoni non banali di cantautori milanesi e amava gli attori dialettali come Gaber, ampiamente e opportunamente citato nel libro Bobo Torchiana. L’amore non fa mai male al prossimo (Itaca, 2025), scritto dall’amico medico Filippo Ciantia, in missione in Uganda per trent’anni. I prediletti di Bobo erano anche Jannacci, Nanni Svampa e i Gufi, quando saliva sul palcoscenico durante gli incontri o le vacanze comunitarie e cominciava con il suo proverbiale “passatemi lo spartito”.
Era una presenza allegra, spiritosa, ma sempre segnata da una serietà umana che lo rendeva speciale. Aveva un prezioso quadernetto con le canzoni in milanese del cabaret degli anni 60, in cui personaggi emarginati ma caratterizzati da sentimenti e valori sinceri, come l’amicizia e la nostalgia di rapporti veri, rifiutavano come lui l’ipocrisia borghese.

Malgrado il percorso di studio piuttosto tortuoso di questo giovane battagliero dai riccioli neri, sempre disponibile agli altri, la scelta dell’università fu chiara: voleva fare il medico. E maturava in lui anche l’idea di una dedizione totale a Cristo. “Davvero il Signore ascolta il povero che grida e lo salva; il povero, cioè colui che riconosce la sua impotenza a costruirsi e ad essere uomo fino in fondo se non nelle mani di Dio”, scriveva a un’amica.
E lo diceva in un periodo difficile, quando aveva dovuto ripetere l’esame di anatomia ben nove volte. Questo ci svela molto della sua tenacia e della sua maturazione nella fede. Infatti non si diede per vinto e, per recuperare il ritardo accumulato, studiò come un matto con un amico per due anni: 24 esami in 24 mesi! Ma intanto era sempre attento alle persone in difficoltà e ansioso di dare una mano a chi ne aveva bisogno.
Così riuscì a convincere il padre, decisamente riluttante, ad affittare un appartamento libero che la sua famiglia aveva in viale Papiniano a Milano: quello diventò il “mitico appartamento” che ospitava persino studenti in sedia a rotelle. Bobo, abitando nello stesso stabile, interveniva e sosteneva nei casi di necessità. “La persona che si siede accanto a voi, in metropolitana, non è un estraneo perché ha il vostro stesso Destino”, gli aveva insegnato il Gius. E lui lo viveva quotidianamente.
Fu proprio nell’appartamento al quinto piano di viale Papiniano che Nicoletta conobbe quel “bravissimo chitarrista e cantante”, che aveva “un sorriso disarmante e “uno sguardo sincero”: sarebbe diventato il suo sposo. Due caratteri diversi cementati dalla fede. Poi, uno dopo l’altro, quattro figli, oltre all’opera dell’accoglienza per i parenti dei malati che venivano a Milano per essere operati.
Tanto lavoro, ma anche le vacanze in montagna con gli amici: un’occasione per vedere luoghi e panorami bellissimi, ma anche uno stile di vita, un modo di camminare e stare insieme. Bobo, diventato medico specializzato in Terapia fisica e Riabilitazione, si dedica agli anziani, che aveva sempre guardato con particolare affetto. Aveva capacità diagnostiche fuori dal comune, proprio perché sapeva guardare e ascoltare il malato, era sempre attento e sensibile alle esigenze delle persone. I pazienti lo adoravano. Per amici e parenti era un punto di riferimento, come documentano le tante testimonianze del libro.
Di colpo la malattia. Uno strano dolore alla spalla, un’ecografia e il verdetto: sarcoma da operare. La chemioterapia pesantissima non impedisce che la malattia apparentemente sconfitta si ripresenti. Tanta sofferenza e la richiesta umile di aiuto: “Perché il Signore non si fa vedere, perché non mi prende? Mi ha abbandonato… Però se voi siete qui vuol dire che non mi ha abbandonato…”. Chiedeva il miracolo della guarigione ma lo aspettava “nella forma che vorrà mostrarmi”.
Chiamerà i figli al suo capezzale per dare loro l’ultimo saluto: “Ora il papà deve fare il salto per prepararvi la strada, che ciascuno di voi dovrà percorrere”. E per loro, come gli ha scritto la figlia maggiore Maria Cecilia, “è stato l’esempio più lampante della presenza di Cristo”. Come per chiunque legga il libro dedicato a Bobo, il medico che fino all’ultimo istante “si è fidato di Dio”.
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