Per comprendere e realizzare se stessi è necessario riconoscere che ognuno è unico e irripetibile. Una riflessione in compagnia di Guardini e Buber
“Che ognuno di noi sia unico e irripetibile” non è una frase fatta, ma un’intuizione che si affaccia nei rari momenti di verità che interrompono il fluire della quotidianità. Momenti in cui il cuore si lascia interrogare e riscopre una voce che chiede: “Dove sei? Chi sei tu?”.
Incontrare maestri – poeti, filosofi, santi o anche persone comuni – significa, a volte, ritrovare un’eco di questa voce, che fa cogliere quel misterioso filo conduttore della propria vita: una sorta di password esplicativa, che apre e interconnette i diversi file dell’esistenza, i motivi che ti accompagnano dalla nascita al compimento.
Maestri, quindi, non soltanto per i loro metodi o esempi esteriori, quanto per quelle risonanze interiori che ci riportano all’essenza stessa della vita, della propria vita, in quelle modalità uniche e irripetibili che corrispondono a se stessi e solo a se stessi.
Ciò che tocca il cuore, infatti, è esperienza del tutto personale, non si copia: nasce dalla verità di una presenza viva, nelle particolari e singolarissime modalità che a ciascuno è dato provare nel rapporto con sé e con le altre persone.
La consapevolezza di tale esperienza è ben rimarcata nel famoso testo Il cammino dell’uomo di Martin Buber: “Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro – fosse anche il più grande – ha già realizzato”.
Ognuno, insomma, deve scoprire quale via è segnata nel suo cuore. Certo, spesso può essere anche un cammino doloroso, in cui sconfiggere condizionamenti e attaccamenti di origine educativa, familiare o sociale, su cui si strutturano identità con specifiche fragilità. Ma è questo il cammino dell’uomo, di ciascun uomo che intenda rispondere a quelle domande iniziali, che riaffiorano con particolare intensità in diversi momenti della propria esistenza, per dar conto del “chi sei, dove e con chi sei, e che senso abbia tutto ciò”.
Si affaccia così uno dei paradossi della vita e del cristianesimo: più entri dentro te stesso, più ti apri al mondo.
Più sinceramente scopri in profondità la tua identità – anche se dolorosamente, con le tue domande e fragilità – per distillare la tua autentica natura, depurandola dalle incrostazioni accumulate dall’ego e dalle diverse circostanze, più la purezza del tuo sguardo si apre, percependo la realtà senza pregiudizi e comode convenienze.

E così si spalanca il cuore delle persone cui ti rivolgi, nelle tue relazioni e nella tua comunità, quale essa sia.
E proprio su questo sentiero ci guida un sogno di Romano Guardini, narrato ne Le età della vita:
“Stanotte, ma verso mattina, all’ora dei sogni, ne ho fatto uno anch’io. Che cosa vi si svolgeva, non lo so più, ma era un qualche discorso, e se fosse fatto a me o da me, anche questo non lo so più. Però vi si diceva che, quando un uomo nasce, gli viene consegnata una parola, ed era importante quel che significava: non era soltanto un carattere, ma una parola. Essa viene pronunciata all’interno dell’essenza dell’uomo, ed è come la parola d’ordine per tutto quanto poi accade; è insieme forza e debolezza, è compito e promessa, protezione e minaccia. Tutto ciò che avviene nel corso degli anni è conseguenza di questa parola, è suo commento e adempimento. E avviene perciò che colui cui essa è stata detta, ogni uomo – poiché a ognuno ne viene singolarmente detta una – la comprenda e con essa venga ad accordarsi. E sarà forse questa parola ad essere il fondamento di ciò che un giorno il Giudice gli dirà”.
Una parola unica e irripetibile che ciascuno porta in sé. Il compito della vita sta in questo: accordarsi con quella parola, riconoscerla, lasciarla maturare e compiersi nella fedeltà quotidiana. È la password che svela il senso della nostra esistenza davanti a Dio e agli uomini.
Emblematica, in tal senso, è la lotta tra Giacobbe e l’Angelo. Commenta così Guardini: “L’avvenimento è misterioso. Affonda nella memoria e vi rimane impresso. Forse non lo si capisce, oppure si sente che è pieno della realtà più sacra. Ci si riflette, lo si tira fuori e vi si trova sempre ancora qualcosa in più”.
È solo in quel misterioso dinamismo di lotta e sottomissione che Giacobbe scopre, ricevendo dal Signore, il suo vero nome: Israele (colui che combatte con Dio), fortemente evocativo del destino di ogni uomo alla ricerca del suo autentico cammino.
“Dio si avvicina a noi, ma come coloro che combattono, possono combattere in quanto forti. Dover combattere, poiché la loro accoglienza avviene in tutta libertà, elevando la loro interiorità, superandola e portandola dentro. Come combattente e vincitore Dio vuole l’uomo, la sua creatura. Ama la sua forza, che Lui stesso gli ha dato affinché egli combatta con Dio e con gli uomini e riporti la vittoria. Poi gli concede che egli diventi ‘uno’ davanti al suo Creatore, uno nominato da Dio e che, come tale, lo possieda”.
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