Con il suo ultimo lavoro “C’era una volta il Sud” Marcello Veneziani ci propone un Meridione inattuale, e proprio per questo ancora più prezioso
Conservare il passato del Sud per consegnarlo alla memoria collettiva è lo sforzo compiuto da Marcello Veneziani nel suo ultimo libro C’era una volta il Sud (Rizzoli, 2025).
Il linguaggio dell’autore, in questa occasione, è caratterizzato da un intreccio peculiare rappresentato dalla trama del testo e dall’ordito delle fotografie in bianco e nero di un meridione ormai archiviato, ma che non va cancellato.
Questo “memoriale fotografico” è un valzer (o se si vuole una pizzica o tarantella, visto l’argomento) tra parole e immagini, nel quale i ricordi personali sono un tutt’uno con la memoria pubblica, con feste in onore dei Santi, riti sacri e tic pagani, passando per soprannomi che individuavano famiglie e presupponevano socialità vissuta, fino a giungere al racconto della controra, quel lasso del giorno che non serve a scandire il tempo, ma a sospenderlo.
Nell’intera ricostruzione non c’è mai la necessità di attualizzare il passato o di realizzare comparazioni impossibili (e inutili), ma la volontà di recuperare la fotografia di un Sud inattuale, magari ormai sfocato, ma del quale è necessario preservare e tramandare la memoria, come elemento di consapevolezza personale e comunitaria.
In questo sforzo c’è l’esigenza di Veneziani di non rassegnarsi alla “odiernità”, alla perpetuazione del presente quale unico elemento di discrimine e di giudizio, ma di avere la consapevolezza che abitare il passato, oltre a vivere il presente, è una ricchezza non barattabile.
La ricostruzione è, quindi, dichiaratamente nostalgica, senza infingimenti o titubanze, perché per Veneziani la “nostalgia è un bellissimo sentimento che fa bene all’anima” ma che “diventa malattia se si capovolge in odio verso il presente, in pretesa di abolirlo”.
L’emblema di questa immersione nel passato è rappresentato dalle foto della “vita gratis”, quell’esistenza che si svolgeva all’aperto, per strada, senza costi, senza ambizioni, senza pretese, con il sapore dell’infanzia e il gusto della libertà accessibile a tutti, piena di fantasia e priva di oggetti (se non rudimentali).
Il ricordo, però, viene circoscritto nel suo esatto contesto, perché l’autore ci avverte della durezza di quella vita, ruvida e difficile, caratterizzata da ingiustizia e miseria, a dimostrazione del fatto che bisogna restare distanti da due opposti fondamentalismi: l’ansia di attualizzare ciò che è stato o la smania di farne tabula rasa.
Non mancano le digressioni narrative, come la superstizione tratteggiata nella figura dello iettatore, il riferimento alle estati punteggiate (letteralmente) dalle zanzare che pinzano “per bere alla spina”, per arrivare ai campi sterminati di ulivi che lasciano il passo all’attuale sterminio dei campi post xylella.
Il testo restituisce un volto a quel Sud reietto che proprio attraverso la fotografia è riuscito ad avere un ritratto di sé. Dagherrotipi rari, sfocati, che hanno l’inestimabile valore di fissare nel tempo l’istante, quale unica possibile ambizione all’eternità in vita.
L’autore ritiene, infatti, che i ritratti fotografici siano il vero suffragio universale, in quanto hanno conferito il “diritto al volto” ai cosiddetti cafoni del Sud, i quali nelle fotografie dell’epoca assumono una posa seriosa quasi volessero racchiudere nell’immagine non l’istante dello scatto ma la loro vita intera, per consegnarla al futuro.
Non vi può essere una corretta e completa ricostruzione del Sud, anche in chiave fotografica, senza il riconoscimento del ruolo centrale dell’album nuziale. La raccolta fotografica matrimoniale ritrae l’intero quadro familiare, sino alle propaggini più estreme di parenti sconosciuti che venivano recuperati giù “per li rami” dell’albero genealogico, ma è anche lo strumento per dare evidenza alla massima disponibilità economica personale, come fosse un inventario in vita.
Ripercorrendoli a ritroso, gli album nuziali delineano l’evoluzione sociale e di costume del Sud. Il vero funzionario dell’anagrafe civile era il fotografo, certificatore dell’esistente e creatore dell’immaginario, perché solo chi ha scattato quelle foto può aver conosciuto il vero contesto nel quale l’attimo è stato consegnato al tempo.
Si sommano le soggettività “del fotografo, del fotografato, di chi osserva, che combinandosi, formano l’oggettività dell’immagine”. Quella riproduzione fotografica in bianco e nero rappresenta il documento esatto di una società in chiaro-scuro che viene consegnata oltre il trascorrere del tempo.
Quei ritratti, però, non hanno alcuna parentela con i selfie di oggi, non solo per la precisione cromatica degli strumenti attuali, ma perché questi ultimi non hanno l’obiettivo di riprodurre la realtà, ma di distorcerla, anche attraverso ritocchi grafici. Le foto d’archivio sono narrazione che sfida il tempo, le fotografie attuali sono la costruzione artificiosa ad uso e consumo del tempo. Alla base non c’è più la comunità, ma la sua forma mercificata rappresentata dalla community nella quale non nasce alcun “noi”, ma viene riprodotto (anzi ritratto) all’infinito, in mille guise, lo stesso “io”.
In C’era una volta il Sud non vi sono istanze revansciste o piagnistei, ma l’esatto contrario, tanto è vero che Veneziani mette in guardia dal fatto che il Sud non è in contrapposizione a Nord, ma rappresenta ormai il suo passato, in una rincorsa del meridione al settentrione. Per questo motivo il ricordo può essere un antidoto all’insignificanza globale, perché l’identità non è fardello, ma primo passo per riconoscere e dialogare con l’altro.
Veneziani è consapevole del fatto che l’esercizio della memoria, quando è intellettualmente onesto e non intende occultare difetti o modificare i contesti, presuppone uno sforzo complesso. D’altro canto il sociologo Franco Cassano – con il quale l’autore ha avuto diversi momenti di dialogo – ebbe modo di scrivere che “Il dover essere e l’essere sono regni eterogenei e nessuno di essi può essere ridotto all’altro. Bisogna resistere alla tentazione di sedersi dall’una o dall’altra parte, accettare di rimanere in piedi, anche se si sta scomodi e ci si può stancare” (L’umiltà del male).
Il viaggio dell’autore nel passato ha come percorso le parole e come segnaletica le fotografie, ma, per restare sul filo della metafora, è compiuto da parte di Veneziani osservando una chiara distanza di sicurezza che è anche ammissione personale: “Caro Sud, dal primo giorno che non ti ho visto mi sono innamorato di te”.
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