Nel suo saggio sulla cittadinanza Leonardo Mellace esplora le oscillazioni della Corte di giustizia Ue mostrando il suo orientamento ondivago in materia
Il saggio di Leonardo Mellace, I diritti dei cittadini europei presi sul serio. Diritti e cittadinanza nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, (Mimesis, 2025) fornisce preziosi elementi per districarsi in un dibattito intorno all’istituto della cittadinanza europea, che spesso procede senza prestare la dovuta attenzione ai dati giuridici e giurisprudenziali che ne hanno determinato lo sviluppo.
L’autore, docente di Diritti umani, integrazione e cittadinanza europea all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro, presta particolare attenzione al ruolo giocato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), che della cittadinanza europea è “madrina di battesimo”, analizzando una molteplicità di sentenze che permettono di guardare alla cittadinanza sovranazionale nella giusta ottica.
Il testo prende l’abbrivio dalla constatazione che la cittadinanza europea, tradizionalmente intesa come un insieme di diritti e doveri correlati a una determinata comunità politica, è una cittadinanza derivata, che non si sostituisce né si aggiunge a quella nazionale. Va quindi differenziata dai casi di doppia cittadinanza, che si hanno ogniqualvolta un soggetto ha due distinti rapporti con comunità politiche differenti, ognuno dei quali dotato di una sua legittimità autonoma e indipendente. L’UE, infatti, non può vantare un proprio ubi consistam al di fuori del rapporto con gli Stati membri.
Il primo capitolo del libro si concentra proprio sul carattere derivato della cittadinanza europea. Nella sentenza Micheletti (1992), riguardante una controversia relativa al possesso di doppia cittadinanza – quella argentina de iure soli e quella italiana de iure sanguinis –, la Corte di Giustizia ha riconosciuto l’esclusiva competenza degli Stati membri nella determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza nazionale, statuendo però che tale competenza deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario.
Come osserva Mellace, con tale sentenza viene meno il principio individuato dalla Corte internazionale di giustizia (ICJ) nel caso Nottebohm (1955), secondo cui l’effettività dell’attribuzione della cittadinanza dipende dalla presenza di un “genuino legame di appartenenza” tra lo Stato concedente e il soggetto beneficiario.
Ancora nel primo capitolo viene affrontata la questione del rispetto del “principio di proporzionalità”, un test – se così si può chiamare – che assume una connotazione per certi versi politica, essendo rimesso alla determinazione degli Stati membri. Mellace si domanda, non a caso, se ciò “non rischi di determinare una difformità di applicazione da Stato a Stato” (p. 44).

La risposta – al netto di tutta una serie di considerazione che potrebbero e dovrebbero farsi e per le quali si rimanda al testo – sta nel fatto, come sostiene lo stesso autore, che “la cittadinanza europea, nonostante gli importanti risultati raggiunti, soffre ancora la sua condizione di cittadinanza di ‘secondo livello’, una condizione che – va da sé – la tiene legata agli ingombranti legacci delle nazionalità” (p. 47).
Il secondo capitolo concentra invece la sua attenzione sul rapporto tra cittadinanza europea e solidarietà europea. L’analisi prende le mosse dalla libertà di circolazione concessa ai lavoratori nella sfera comunitaria anche prima della ratifica del Trattato di Maastricht e dal principio di non discriminazione rispetto alla manodopera autoctona. Tale orientamento rimane intatto fino ai primi anni Novanta del secolo scorso.
Poi qualcosa cambia con la Direttiva UE 2004/38, che stringe a tal punto le maglie da “pretendere” che la libertà di circolazione e soggiorno dei cittadini europei debba essere condizionata al possesso di risorse economiche sufficienti per mantenere sé stessi e la propria famiglia, così evitando di diventare un onere eccessivo per le casse dello Stato membro ospitante.
Questo cambiamento si ha anche nella giurisprudenza del giudice europeo che, a partire dal filone giurisprudenziale inaugurato con le sentenze Brey, Dano e Alimanovic, si fa più rigorosa nelle questioni che hanno ad oggetto la concessione di benefici sociali ai soggetti economicamente inattivi.
Si tratta di una vistosa marcia indietro, dunque, in cui esplicitamente si vuole “evitare che i cittadini dell’Unione economicamente inattivi utilizzino il sistema sociale dello Stato membro ospitante per finanziare il proprio sostentamento” (Sentenza Dano, punto 76, citato in nota 64, p. 70).
Di segno opposto rispetto alla concessione dei benefici sociali è l’attenzione che è rivolta ai diritti civili. Nel terzo capitolo del volume, Mellace utilizza, non a caso, un’immagine molto suggestiva, ovverosia quella di “cittadinanza sempre più arcobaleno”, che mette in evidenza come vi sia in essere un progressivo ampliamento dello status familiare ma, ancor di più, un costante processo di evoluzione e di estensione degli stessi diritti delle coppie eterosessuali a quelle omosessuali, nonché un’affermazione delle tutele antidiscriminatorie in relazione all’orientamento sessuale e all’identità di genere.
Se si pensa ai termini fondamentali del dibattito degli ultimi anni, il testo è assai prezioso perché orienta la sua riflessione di taglio teorico-giurisprudenziale sull’istituto della cittadinanza europea senza tralasciare l’analisi delle dinamiche, economiche e politiche, che ne hanno determinato l’evoluzione negli anni.
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