Al di là degli esaltanti successi sportivi di quest’estate e dell’impegno della società civile e del governo per il rilancio dell’Italia dopo le pesanti restrizioni per la pandemia, è urgente, per prepararci alle sfide future che attendono il nostro paese, riflettere sulle caratteristiche specifiche che tengono insieme il nostro popolo in prospettiva storica.
Questo ci porta subito a rilevare un paradosso: è un tema, quello degli aspetti unitari caratterizzanti l’Italia, di cui si parla molto, ma su cui non sembra esserci un consenso minimale.
Anzi oggi proprio l’idea di un’appartenenza storica è in profonda crisi, come poeticamente ci ricorda in una delle sue ultime canzoni Gaber, da sempre attento interprete del “sentire” diffuso tra la gente.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra
Patria non so che
cosa sia…
Io non mi sento
italiano ma per
fortuna o purtroppo
lo sono…
………………….
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un
po’ sfasciato…
…………………
Mi scusi Presidente
se arrivo all’impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza
Eppure, se passiamo ad osservare come gli stranieri ci guardano, dobbiamo notare che tutti riconoscono sempre come in un ambito geografico che va dalle Alpi fino alla Sicilia si incontrino uomini caratterizzati da una modalità di strutturazione socio-culturale peculiare, ben al di là dei dati del folklore (e cioè dal riferimento a un certo clima, a certe caratteristiche culinarie o di carattere).
Il dato della geografia e del folklore infatti di per sé è molto problematico (ogni parte d’Italia è diversissima dalle altre, innanzitutto dal punto di vista morfologico, ecc.), però gli altri (i nostri vicini europei, come i francesi, i tedeschi, gli inglesi) ci hanno sempre considerato italiani, non hanno mai avuto dubbi sul fatto che esistesse un fattore identitario che unifica tutti coloro che abitano le diverse regioni d’Italia (per sottolineare la pluralità italiana Galli della Loggia osserva che sul piano europeo una di queste lingue – il tedesco – definisce il nostro paese in forma plurale: “Italien”).
Parlare di una tipologia socio-culturale comune a tutti gli italiani significa ritenere che nel corso dei secoli si è formato un “nucleo” di riferimento fatto di valori, di istituzioni, di una modalità di rapporti sociali (oltre che di convenzioni linguistiche) specifica, una “rete” di caratteristiche che prese di per sé potrebbero essere uguali a quelle di altri popoli, ma che sono “connesse” tra loro secondo una modalità unica ed originale.
Il problema dell’identità italiana è dunque il problema della sua storia, del rapporto tra il nostro presente e il nostro passato.
Si ripete spesso il detto attribuito (falsamente) a Massimo D’Azeglio. Dopo l’unità politica (di cui quest’anno ricorre il 160esimo anniversario) un’altra grande opera attende il paese: “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Chiunque sia stato l’autore di questo giudizio, esso esprime bene la ricorrente autocritica sulla scarsa compattezza nazionale e sul prevalere di consorterie locali o corporative e di appartenenze basate su una qualche forma di “tifoseria” sociale e culturale o in riferimento a ideologie politiche, piuttosto che sul senso di appartenenza ad una stessa comunità di popolo.
Ma quelle parole non sono vere, perché se gli italiani non ci fossero, come si potrebbero fabbricare?
È chiaro invece che un popolo è una realtà umana in un continuo divenire, segnato da momenti e avvenimenti archetipici che ne segnano le origini e le svolte fondamentali.
Sembra molto più ragionevole quindi seguire l’indicazione lasciataci anni fa da una grande studiosa di storia medievale, Gabriella Rossetti, che affermò: “Gli italiani sono una nazione a cui è mancata a lungo la congiuntura favorevole per fare l’Italia”.
È quanto si è proposto di approfondire il dossier dell’ultimo numero di LineaTempo, dedicato al tema “Alla ricerca dell’identità italiana. Da Roma a Dante, dal Risorgimento all’Italia multietnica di oggi”.
Il filo conduttore dei brevi e graffianti interventi ivi presentati mira infatti a rivisitare tanti luoghi comuni sulla storia culturale e linguistica del nostro paese, per andare al di là del mito di una “storia sbagliata” e far emergere la tensione all’unità culturale e linguistica che precede l’unificazione politica risorgimentale, mostrando le radici antiche di una unità pluriforme capace di illuminare il presente.
La specificità di quella che si può definire una nazione-società italiana ante litteram si è formata già in epoca romana (vedi il saggio di Milena Raimondi) e si è sviluppata anche attraverso il particolarismo politico medievale, consolidandosi con il riferimento alla tradizione cattolica pervasiva dell’intera penisola e alla geniale ed originale elaborazione linguistica dantesca (vedi il saggio di Elena Landoni) di una lingua comune “alta” ed insieme profondamente versatile, il che ben a ragione fa considerare Dante il padre della lingua italiana.
Ma l’Italia ha continuato ad essere una comunità culturale e linguistica capace di rinnovarsi creativamente, con un percorso di sviluppo in cui prevalgono gli elementi di continuità rispetto alle fratture, fino alla pienezza della modernità, secondo una modalità di costruzione dell’unità basata sulla convergenza del molteplice piuttosto che sulla compattezza di una coesione inglobante (vedi il saggio di Danilo Zardin), smentendo così il mito del continuo conflitto in età moderna di “due Italie”, una condizionata e “impantanata” nei particolarismi politici regionali dalla presenza ingombrante e tendenzialmente conservatrice della Chiesa e l’altra aperta al nuovo proveniente da Oltralpe in perenne lotta col conservatorismo della prima.
Accanto alla critica a questa lettura dicotomica della storia del processo di unificazione politica italiana dal Cinquecento all’Ottocento svolta dal saggio di Andrea Caspani su “La storia-mosaico dell’unità politica italiana” è importante qui ricordare la prospettiva complessiva sul tema elaborata da Francesco Bruni in un suo importante testo del 2010: Italia. Vita e avventure di un’idea (Il Mulino).
Egli afferma: “Proprio la lunga preesistenza di un’Italia multidimensionale (geografica, giuridica, religiosa, linguistica ma anche del vestire e del mangiare e di tanti altri caratteri) toglie fondamento ai pareri che, a partire da una robusta ignoranza dei fatti e da una formidabile distorsione ideologica, giudicano la formazione dello stato italiano il frutto di una improvvisazione casuale dell’ultima ora, quasi che l’origine del paese vada cercata nel 1848 o nel decennio seguente”.
Il libro del Bruni, che sarebbe tutto da rileggere, illustra poi bene il tessuto, sempre variegato ma anche tendenzialmente unitario, di un paese che riesce ad alimentare nel corso dei secoli una continua creatività artistica e culturale, sviluppando insieme una unità pluriforme sul piano linguistico e letterario (vedi i saggi di Giampaolo Pignatari e Paolo Maino) e che si può ben definire “una comunità in cerca di uno stato e non uno stato in cerca di una comunità”.
Questa unità nella pluriformità è poi ciò che spiega quella tipica identità italiana a strati che fa riconoscere ancora oggi a molti come “l’attaccamento al campanile, alla patria italiana, all’Europa … fanno parte del Dna della nostra tradizione”.
Quel che emerge in controluce dai diversi saggi dedicati alla (ri)scoperta del senso dell’identità italiana è che proprio i fondamenti non etnici della realtà italiana, con le sue basi culturali e di costume comuni e la libera formazione della nazione e della lingua, mostrano che è per libera scelta consensuale che gli italiani sono esistiti e continuano ad esistere fino ad oggi.
Ma come può continuare oggi questa appartenenza stratificata e pluriforme all’unica comunità nazionale?
Un importante contributo sulle problematiche dell’attuale sviluppo di un’Italia multietnica (plasticamente evidenziata dai successi olimpici di quest’estate) lo offre Giorgio Paolucci, nell’intervento conclusivo del dossier, con una disamina ricca di dati e che offre spunti di riflessione per chiunque voglia misurarsi con la prospettiva di una possibile nuova identità “arricchita” degli italiani.
In questo senso ci piace concludere che la necessità di elaborare una nuova prospettiva per il domani dell’Italia dovrebbe spingerci a comprendere che è proprio l’incapacità di fare i conti con la propria tradizione a rendere difficoltosa l’elaborazione di un progetto culturale plausibile per il futuro. È il momento di tornare ad interrogare la nostra tradizione per dare un senso al presente e una prospettiva realistica per il futuro.
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