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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Il coraggio per “dire io” tra Freud e don Abbondio

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LETTURE/ Il coraggio per “dire io” tra Freud e don Abbondio

Luigi Campagner
Pubblicato 21 Agosto 2021
meeting_rimini_1_lapresse_2018

Meeting di Rimini (LaPresse)

Da dove viene il coraggio che serve per "dire io"? Ovvero come si vince la paura? Serve un altro, un compagno. Freud, correttamente inteso, lo aveva detto

Negli ultimi anni i titoli del Meeting di Rimini sono diventati più semplici. Quello di quest’anno, “Il coraggio di dire io”, è addirittura immediato e tuttavia complesso, perché il coraggio suppone la paura a cui esso si contrappone per provare a vincerla. Si aggiunga che l’io non è una cosa che c’è oppure no. L’io è un avvenimento e come tale un successo che potrebbe tardare, avvenire solo in parte o – terribile a dirsi – non avvenire, o dar luogo a forme di abdicazione anche dopo essere accaduto. È quanto insegna la psicoanalisi ed è ciò di cui fa quotidiana esperienza ogni terapeuta.


LETTURE/ Buber, Guardini e quella "password" che svela il senso della nostra vita


Il concetto di avvenimento è fondante per il Meeting, riconducendosi ad uno – mi azzardo a pensare che fosse quello centrale – dei temi cardine di don Giussani. Curioso che lo fosse anche dell’ateo Freud che ha fatto dell’io, della sua riuscita, del suo avvenimento lo scopo stesso della scienza che ha inventato. Nell’Introduzione alla psicoanalisi del 1932, un’opera della maturità pensata come una serie di conferenze riepilogative del lavoro e delle scoperte del trentennio precedente, Freud lo afferma con tutta la chiarezza linguistica che contraddistingue la sua prosa. Proviamo a immaginare la sua voce come se parlasse ad uno degli affollati incontri – ora meno, Covid regnante – del Meeting.  “L’intenzione degli sforzi terapeutici della psicoanalisi in definitiva è (…) di rafforzare l’lo, di renderlo più indipendente dal Super-Io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es. Dove era l’Es, l’Io deve avvenire”. 


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“Wo Es war, soll Ich warden”, la frase è celebre, la si impara a memoria sin dal liceo, perché la traduzione non è immediata. “Warden” è spesso tradotto con “subentrare”, ma la parola, in modo più pregnante, significa: divenire, accadere, aver luogo, avvenire. Per rendere l’idea al pubblico incuriosito, ma non avvezzo al suo linguaggio, Freud pensa di usare una metafora chiarificatrice. Rafforzare l’io, precisa, “è un’opera di civiltà, come la bonifica dello Zuiderzee”, l’immane opera di recupero di un’intera regione paludosa di cui il popolo olandese si è reso protagonista nel XIX e XX sec., trasformando un problema secolare in un vantaggio duraturo per le generazioni future.


LETTURE/ Esposito e quell'apertura originaria dell'io che "smentisce" ogni nichilismo


Ancora una volta Freud utilizza una metafora geografica. Lo aveva già fatto con la famosa topica: Io, Es, Super-Io che paragona a tre stati dai confini incerti che insidiano il territorio altrui. Così, quando nella stessa opera Freud ribadisce che l’io – anche dopo l’illuminismo, l’avvento della scienza e il progresso tecnico – “non è signore a casa propria” rappresenta l’io come un territorio occupato da forze ostili, come nel caso di una guerra, o reso inospitale da eventi riconducibili a sé o ad altri, o che ancora non è stato reso abitabile e produttivo. La mente corre ai nostri giorni: all’Afghanistan sotto scacco dai talebani, alle alluvioni che hanno colpito Germania e Belgio, al caldo inospitale che assedia il sud dell’Europa e spinge l’avanzata dei deserti in Africa e Medio oriente, o alla pandemia ancora virulenta. Sono tutti fattori che alimentano la paura perché insidiano livelli di benessere faticosamente raggiunti e pongono ostacoli all’accesso a tale benessere da parte di intere popolazioni e delle nuove generazioni.

Eppure, tali ostacoli sono allo stesso tempo uno stimolo a scoprire qualcosa di nuovo, a rivedere impostazioni o principi ritenuti cardini inamovibili. È l’apporto di novità che ogni crisi porta con sé, quando si ha il coraggio di attraversarla senza rifugiarsi nell’immodificabile, nel già saputo e nel già sperimentato. È quanto accade in ogni terapia che può trasformare una crisi in un fattore di progresso, di rivoluzione, di rinnovamento personale e sociale. Tuttavia, trattandosi di coraggio va considerata l’obiezione che Manzoni fa pronunciare a don Abbondio: “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. La risposta l’hanno data, a distanza, gli atleti olimpici italiani passati da brutti anatroccoli a cigni imperiali durante lo svolgimento dei Giochi. Nessuno di loro è salito sul podio da solo, né da solo ha attraversato i momenti più bui. Tutti lo hanno riconosciuto con grande semplicità e riconoscenza. Tamberi si è subito ricordato della fidanzata, l’autrice della scritta “Tokyo 2021” sul gesso, icona dell’infortunio di cinque anni prima. Jacobs ha immediatamente ringraziato la sua mental coach.

Nel pieno di una crisi il coraggio sta nel fare posto ad un altro. Mi ha sempre colpito, sin dal mio primo imbattermi nella psicoanalisi, che la parola therapon non significhi medico, o esperto e neppure terapeuta, ma compagno. A dispetto della distinzione ossessiva tra rapporto amicale e professionale il therapon rappresenta un caso professionale di amicizia dell’io, al suo pensiero, al suo desiderio, anche quando si presenta nella forma del brutto anatroccolo: confuso, incerto o testardamente impaurito.

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