La nostra coscienza è chiamata a non arrendersi, se non vogliamo dare la vittoria a Caino. Servono piccoli gesti di nuova umanità e di salvezza
Siamo cresciuti nella memoria dell’orrore di due guerre mondiali, accompagnati dallo sconcerto davanti all’incomprensibile tragedia della Shoah, con quella domanda, che non trova risposta alla domanda: perché?
Le interpretazioni non sono mancate: dalla “banalità del male” di Hannah Arendt alle analisi sull’autoritarismo di Horkheimer e Adorno, a Bauman che ha mostrato la Shoah non come un’anomalia, ma come il frutto della modernità burocratica e razionale spinta fino all’estremo.
Eppure nessuna spiegazione è mai apparsa del tutto soddisfacente a quella domanda che continua a inquietare la coscienza.
La consapevolezza di altri genocidi – da quello degli Armeni a quelli più vicini a noi nel tempo – e il ricordo delle colpe secolari del cosiddetto mondo civile nei confronti delle popolazioni indigene del Nuovo Continente, non fanno che acuire un’amara percezione delle zone d’ombra della natura dell’uomo: la sua inarrestabile capacità di compiere il male.
Qui torna alla mente la voce limpida e ferita di Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, che in Se questo è un uomo ci ha consegnato un monito destinato a non spegnersi: “Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore. […] Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”.
Eppure continua a riaffiorare, ostinata, la logica antica di Caino e Abele, quella dinamica conflittuale che si ripresenta in ogni tempo e che troppo spesso si traduce nell’amaro assioma hobbesiano: homo homini lupus.
Ma davvero vogliamo arrenderci, in quest’epoca di terza guerra mondiale a pezzi, a questa visione? O è proprio qui che si gioca la nostra responsabilità storica: non lasciare che la memoria dell’orrore diventi soltanto rassegnazione, ma seme di speranza e di impegno per il futuro?

Quelle parole di Primo Levi si ripresentano quindi come giudizio sul presente. Gaza, con il suo dolore senza tregua, ci ha offerto immagini, tra le tante tragedie, che avremmo voluto pensare relegate ad altri tempi. E l’impresa della Flotilla, fragile tentativo di rompere l’assedio con gesti di umanità concreta, resta un segno che non tutto è rassegnazione. Azione coraggiosa e volutamente simbolica di lealtà al bene e alla giustizia mossa da quella stessa luce che irradia piccoli e ordinari gesti meno eclatanti di dialogo, mitezza, vicinanza al bisogno, desiderio di bellezza e giustizia nelle nostre vite.
Grandi e piccoli gesti di umanità non tranquilli di fronte alla sofferenza.
Mi ritornano alla mente i silenziosi, ma straordinari gesti di offerta di sé, che costellano la storia umana di sacrifici fino al martirio.
E allora oggi, di fronte a queste tragedie epocali, possiamo davvero restare inerti a guardare i telegiornali, indignati e impotenti?
Probabilmente di fronte alle immagini quotidiane di violenza e morte, esempi di coraggioso offrirsi anche a rischio della propria vita risvegliano e rammentano che qualcosa si può fare. Che non esiste solo la violenza e il diritto del più forte. E allora è da apprezzare che ciascuno in base alla propria forza, identità e responsabilità possa testimoniare la propria inquietudine con i piccoli e grandi gesti di cui è capace.
In questo scenario, di fronte al di là di interpretazioni parziali e strumentali del gesto umanitario e simbolico dei volontari di Flotilla, risuonano con forza i richiami di Papa Francesco contro la “globalizzazione dell’indifferenza” e quelli di Papa Leone XIV contro la “globalizzazione dell’impotenza”.
Le loro parole costringono noi, “che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, noi che torniamo la sera trovando cibo caldo e visi amici”, a non voltare lo sguardo altrove, perché “le nostre piccole isole di pace diventino pilastri di ponti, capaci di collegare, di sostenere, di trasmettere speranza, affinché – come ricordava Papa Leone – la pace raggiunga tutti i popoli e tutte le creature”.
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