Cominciamo a sgombrare il campo dalla cattiva retorica e ripartiamo dalla storia. Il Giornata della Memoria è stato istituito nel 2005 con una risoluzione delle Nazioni Unite ed è, dunque, relativamente recente. La data del 27 gennaio fu scelta perché in quel giorno del 1945 l’Armata Rossa, che avanzava in direzione di Berlino, raggiunse e liberò il complesso di campi di lavoro e annientamento di Auschwitz (ora Oświęcim, in Polonia). Ed è bene ricordarsi anche di questo particolare, perché nel clima russofobico di questi nostri tempi capita anche che in tv ci siamo mezzi busti che parlano della liberazione di Auschwitz da parte delle truppe USA. Fa parte del diluvio di parole che non fanno bene alla memoria, quella vera, e sono appunto il succo della “cattiva retorica”: quella di cui parlava il compianto Giorgio Israel in un suo celebre articolo, uscito sul Messaggero del 27 gennaio 2014. Proviamo a rileggerne il passaggio centrale, anche alla luce di quello che sta succedendo a Gaza.
“Sono passati tredici anni dall’istituzione per legge del Giornata
della Memoria, volto a ricordare la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico) e i deportati italiani nei campi nazisti con ‘cerimonie, iniziative, incontri (… ) in modo particolare nelle scuole’, per ‘conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere’. Propositi ineccepibili, ma invece di aggiungere altre voci al coro che, di anno in anno, ha assunto le sembianze di una rotolante valanga (…) è più opportuno fare un bilancio e chiedersi se al moltiplicarsi di cerimonie e incontri abbia corrisposto un declino del razzismo e dell’antisemitismo. Purtroppo è accaduto il contrario (…). In verità, i rischi erano evidenti dall’inizio. Ha sbagliato gravemente chi ha presentato la Shoah come un evento unico, impossibile da confrontare e persino da accostare a qualsiasi altro evento storico, fino al punto di imbastire una metafisica e una teologia della Shoah. Gli effetti di tale assolutizzazione si sono puntualmente verificati. Anche nelle menti non corrotte dall’ideologia è emerso un rigetto istintivo nei confronti di qualcosa che, non appartenendo alla storia terrena, appare estraneo e persino antipatico”.
Sin qui Giorgio Israel, che, da ebreo, poteva dire tutto questo senza il rischio di essere equivocato. Le sue sono parole che era davvero il caso di riproporre in questo momento storico, perché la cattiva retorica fa male e produce effetti del tutto (ma ne siamo sicuri?) indesiderati. Il cerchio rischia di essere pesantemente vizioso: l’assolutizzazione di quell’evento ormai lontano (i testimoni viventi sono sempre meno) e la sua teologizzazione, se usati per giustificare altri olocausti, magari con un richiamo ad Amalek come ha fatto il premier israeliano all’inizio della campagna di Gaza, finiscono per generare un crisi di rigetto e un oblio della storia che non è senza conseguenze.
L’intervento israeliano su Gaza, con un numero di vittime e di distruzioni pressoché incalcolabili, viene giustificato come reazione alla strage del 7 ottobre 2023, ai danni di più di un migliaio di cittadini israeliani e con oltre 200 civili presi in ostaggio. Quando Benjamin Netanyahu ha menzionato la figura biblica di Amalek, ha evocato un concetto teologico, intepretandolo però in un senso strumentalmente letterale, contro tutta una serie di tradizioni interpretative ben differenti. Nel Primo libro di Samuele, capitolo 15, il re Saul riceve l’ordine di sterminare gli Amaleciti, colpevoli di un proditorio attacco agli israeliti durante l’esodo dall’Egitto. Il richiamo biblico viene riletto dal premier israeliano in chiave di teologia politica e si trasforma nell’invito a una guerra di sterminio, che, alla fine, non può non assumere anche un risvolto pesantemente negativo per la stessa causa di Israele. Lo osserva Anna Foa, ebrea essa stessa, in un suo saggio recente, Il suicidio di Israele (Laterza, 2024), constatando che la linea politica e militare scelta dall’attuale governo israeliano configura la reazione al massacro del 7 ottobre come un attacco non tanto ad Hamas, ma ai palestinesi in quanto tali. Ad affermarlo non è solo la docente della Sapienza, ma molti esponenti dei partiti di opposizione in Israele, e, ancor di più, la scelta coraggiosa di non pochi giovani israeliani che stanno rifiutando il servizio militare per motivi di coscienza. Le storie dei “refusenik” si leggono facilmente cercandone le tracce sui motori di ricerca in internet e sono motivo di un serio imbarazzo per l’attuale governo, probabilmente anche più della scontata posizione degli haredim ultraortodossi.
Anna Foa parla di “suicidio morale” di Israele anche rispetto al rischio che la memoria si capovolga in mera e stanca commemorazione storica senza nessi con il presente. Alla fine del suo saggio, la docente di storia ebraica si chiede come sia possibile celebrare la memoria dell’olocausto oggi, senza parlare del 7 ottobre e di Gaza, e se sia davvero possibile assimilare la Shoah e il 7 ottobre, come fa Netanyahu, considerandoli la stessa forma di antisemitismo. E conclude: “La violenza del 7 ottobre può anche essere apparsa come il desiderio di uccidere gli ebrei, tutti gli ebrei, anche chi ebreo non era ma viveva in mezzo agli ebrei, ma è stata il frutto di una scelta deliberata, e terroristica, di uccidere i civili, ebrei o meno che fossero, e di esporre alla morte gli abitanti di Gaza per una battaglia che Hamas vuole fare apparire come una lotta di liberazione. Ma i morti di Gaza sono opera di uno Stato che si proclama a gran voce democratico, l’unica democrazia del Medio Oriente, ma che non esita a colpire vecchi e bambini per uccidere un solo capo di Hamas. Un capo che sarà sostituito da un altro dopo pochi giorni. E gli ebrei del mondo, di quella diaspora che si riempie la bocca e la mente di etica ebraica e di pensiero ebraico, come possono accettarlo senza reagire? Come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare a ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza? L’unico modo in cui possono farlo è se davvero credono che tutti gli arabi, che tutti i palestinesi, siano terroristi pronti a sgozzarli. Non voglio pensare che sia così, preferisco vedere in questo il volto terribile della vendetta”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.