LETTURE/ Io sono la luna: Unamuno e il Cristo di Velázquez

- Roberto Gabellini

Davanti al “Cristo crucificado” di Diego Velázquez, Miguel de Unamuno (1864-1936) compone la sua opera poetica di maggior respiro

velazquez cristo crocifisso 1632arte1280 640x300 Diego Velázquez, Cristo Crocefisso (1632)

Miguel de Cervantes, Diego Velázquez, Calderón de la Barca: il cerchio magico ideale di Miguel de Unamuno (1864-1936) è in fondo tutto qui, rigidamente nazionale e limitato al solo “secolo d’oro”; una piccola compagnia, e preziosa, cui fa da corona il popolo spagnolo col suo originale sentimento della vita e il portato ricco e sicuro della sua tradizione.

Da essi Unamuno trarrà le immagini, e più le figure, su cui costruirà in modo incessante per tutta la vita il proprio pensiero, quasi addensandolo intorno ad esse, in un continuo gioco di rimandi. Così sarà con Don Chisciotte, espressione esemplare del popolo, che Unamuno fa rispecchiare nel Sogno di Calderón; e così con il quadro forse più misterioso di Velázquez, il Cristo crucificado ospitato al Prado, il cui morire continuamente, come un rito pagano, o solo popolare, dovrebbe interrompere proprio il triste sogno della vita e la sua vanità inutile.

Davanti a questo dipinto, Unamuno compone la sua opera poetica di maggior respiro e nei cui versi ritroviamo la sua fede (o la sua idea di essa), tutti i suoi dubbi, le sue angosce, e la sua stessa speranza; un testo in qualche modo frutto del lavoro di stesura appena concluso del Sentimento tragico della vita (1913), il suo scritto filosofico più organico, nel quale la corrispondenza tra la riflessione teorica e l’invocazione poetica successiva appare ben evidente.

Ma El Cristo de Velázquez è direttamente connesso anche a un altro testo, esso pure pubblicato nel 1913, che Unamuno dedica al Cristo giacente nella chiesa di Santa Chiara, per la cui violenza, per sua stessa ammissione, egli desidera offrire una riparazione pubblica.

Il poemetto, dedicato al Cristo deposto conservato dalle Carmelitane di Palencia – un corpo contorto, quasi mummificato, addirittura raccapricciante – era stato scritto di getto, in pochi giorni; breve, quasi un’invettiva, termina con un grido al cielo, secco, come l’unica preghiera possibile di un cuore ferito, perché infine si apra e ci mostri il Salvatore: “E tu, Cristo del cielo, redimici dal Cristo della terra!”

Il Cristo di Velázquez (1920) invece, con una gestazione lunga sette anni e i suoi 2.538 versi, sembra voler ricreare esso stesso il cielo infinito. Come ispirato dalla figura perfetta e ideale rappresentata nel dipinto, senza lividi o tensioni, il poema si svolge lento, misurato nei toni, rispettoso o – meglio – devoto, accumulando immagini più o meno consuete della simbologia religiosa; oltre a continui rimandi biblici ai margini del testo, il cui compito sembra essere quello di comprovarne la legittimità e il rispetto della tradizione.

Una scrittura mistica, quasi automatica, che alla fine arriva a comporre una sorta di ‘“sistematica” della salvezza, non a caso avvicinata all’opera di Fray Luis de León che nel secondo Cinquecento scrive uno dei trattati mistici più noti di Spagna, I nomi di Cristo. E una scrittura che, da una parte, sembra voler nascondere l’autore, come un pittore che ritrae se stesso ma nascosto tra la folla, e, dall’altra, appare come la ricerca della parola perfetta, che risuoni in un punto tanto profondo da convincere all’assenso la ragione e il sentimento insieme; parola che costringa lui stesso per primo ad ammettere la fede in Cristo salvatore del mondo.

Ma anche qui, come nel Cristo di Palencia, il brano più commovente del poema è, certo, l’orazione finale, nella quale Unamuno smette i panni dell’autore e ritrova quelli di uomo, stremato dal proprio stesso tentativo (come quel Prometeo che nel testo viene richiamato a figura di Cristo), che ammette il bisogno di qualcuno che venga in suo soccorso.

Ammissione sincera, che pur dura solo un momento e – come “quel Cristo sempre morente, che non finisce mai di morire, per donarci la vita” e può solo mimare l’eterno, offrire solo una parvenza di contemporaneità, di compagnia di Dio all’uomo – deve essere ripetuta di continuo, senza riuscire a dare una qualche certezza all’anima inquieta.

Solo l’intervento di Dio che si fa carne, muore e risorge può risolvere il paradosso tra la ragione (cui nulla resiste, che è in grado di “smontare” ogni tentativo umano di sfuggire al nulla cui sembra destinato) e il sentimento della vita; quel sentimento che invece, ostinatamente, contro ogni logica, non viene mai meno, non cessa di domandare, di pretendere un motivo per vivere e un destino eterno – in carne e ossa – per ogni singolo uomo. Unamuno lo sa, e ricorda bene quale “consolazione” gli desse la fede nei suoi anni giovanili; si appoggia anche, speranzoso, sulla fede del suo popolo, come l’unica sanzione di verità che riesca ad ammettere, ma, come il suo Cristo, continua a morire, e senza pace.

Non gli mancava il cuore, la sincerità, la lealtà del ragionamento, anche una natura religiosa; gli mancò forse, in un mondo tanto tormentato e chiuso, una presenza più reale del Cristo della religiosità popolare o di quello immaginato dall’ingegno dell’arte. “Gli mancava la persona viva di Gesù Cristo”. (C. Moeller)

Verbo incarnato silenzioso e bianco

Nella prima sezione, delle quattro in cui è diviso il testo, dopo una invocazione iniziale nella quale offre i propri versi e il proprio sforzo per il bene di quel popolo di cui si sente debitore e servitore, Unamuno pone una domanda a Cristo stesso, come a chiedere e a iniziare con lui un dialogo intimo e personale.

A che pensi Tu, morto, Cristo mio?
Perché quel velo di profonda notte
dei tuoi neri capelli nazzareni
ti cade lungamente sulla fronte?
Guardi dentro di Te, là dove è il regno
di Dio; dentro di Te, là dove albeggia
il sole eterno delle anime vive.
Bianco il tuo corpo è come specchio
dell’almo sole, padre della luce;
bianco il tuo corpo è come luna
che gira morto attorno a sua madre,
la nostra stanca, vagabonda terra;
bianco il tuo corpo è come l’ostia
del cielo della notte alta e sovrana,
di quel cielo che è nero come il velo
dei tuoi neri capelli nazzareni
così folti.
(trad. Armando Savignano)

Sole, luna, terra; in questi versi Unamuno espone già tutto l’impianto simbolico su cui si fonda il poema. Ne sono riprova alcuni disegni di sua mano allegati al manoscritto finale dell’opera. Nella parte alta, il sole, racchiuso a sua volta in un triangolo, contiene “el svastica”, principio dell’universo e “simbolo dell’eternità”; sotto, la croce, con l’alfa e l’omega sui due bracci, nella stessa posizione in cui in tante opere antiche sono rappresentati proprio il sole e la luna. Il corpo del crocifisso è invece disegnato in forma di una y dalle proporzioni perfette, con angoli uguali tra loro. La croce infine è appoggiata su un monticello al cui interno un segno grafico ne attribuisce il rimando a Maria, calvario e insieme grembo; terra e, insieme, madre.

Dio Padre è il sole, Maria è la terra, Cristo è la luna. Una qualità simbolica, questa, che ricapitola la funziona redentrice di Cristo e che egli stesso “accetta” nel suo primo intervento nel poema.

Fratelli, venite qui a depor le pene vostre; io sono la luna, che la valle adora con la splendida lattea sua laguna e i sogni culla.

Come nota Calvin Cannon in un breve studio sugli aspetti cosmologici del poema – studio che contiene anche i disegni succitati, altrimenti visibili nella casa museo di Unamuno a Salamanca –, di tutti gli ottanta nomi attribuiti a Cristo nel testo, e più o meno arcaici, proprio questa attribuzione è l’unica che non appartiene alla tradizione cristiana; anche se è facile ricondurne l’origine al biancore mistico del corpo di Cristo crocifisso, così usuale nel pensiero medievale e pure evidente nello stesso dipinto di Velázquez; un pallore da cui Unamuno in sequenza fa discendere tutta una ulteriore serie di immagini: nube, spuma, perla, fiore, giglio, agnello, colomba, latte, ostia. E poi, ancora, alba, porta, squarcio, feritoria, ponte, nave. Ma soprattutto specchio; da un lato, riflesso della luce del Padre, altrimenti accecante per l’occhio dell’uomo, e, allo stesso tempo, riprova della Sua esistenza nelle ore buie di questa notte che è la vita terrena; dall’altro, specchio dell’uomo, che deve attraversare la morte perché gli si riveli la vita eterna.

L’alma tua del corpo innamorata

Nella seconda sezione, Unamuno affronta la morte di Cristo e il metodo “paradossale” della salvezza: come la singolarità del metodo di Dio renda sacro ciò che investe con la sua manifestazione, come il suo sacrificio riveli il vero contenuto delle cose e il significato delle vicende umane. Per analogia con la morte, che in Cristo si trasforma in vita, e per noi ingresso nella vera vita, ogni cosa si trasforma da negativa, come sarebbe secondo il criterio dell’uomo, in positiva; quasi una mutazione della sua natura, paradosso che accade e si svela “esatto” nell’istante della morte.

Così, Cristo abbandonato, dal suo trono di solitudine raduna tutte le genti; il silenzio della morte genera un’armonia sublime; il suo grido finale si trasforma in un nuovo canto; il suo sangue che cola lungo il legno sale al cielo come fuoco, la sua discesa agli inferi corrisponde alla salita al cielo dell’uomo; il suo ultimo respiro è il respiro che ridona la vita ad Adamo (come il primo alito di Dio l’aveva creato). La stessa sua nudità, la sua debolezza esposta, la sconfitta atroce, è veste che ricopre la morte e la vince.

Ricopra la nudità del corpo tuo, Signore, di nostra morte il manto; e ciò che in noi mortale è ancora, sia preda della vita!

Pur senza arrivare mai a una dimensione personale della fede, Unamuno riconosce con chiarezza il metodo di Dio, sa bene a cosa rivolgere la propria speranza incredula; e sa bene che solo l’inaspettato gesto del Padre, che ci dona suo figlio, rende almeno immaginabile l’eternità.

In piedi Tu stai, morto

All’inizio del poema, Unamuno aveva dichiarato la fonte della propria ispirazione, non a caso paragonando il pennello di don Diego Rodriguez y Velázquez alla magica verga di Mosè.

E noi per esso Ti vediamo fatto carne (…)
Verbo incarnato silenzioso e bianco che con linee e colori parla, dice la sua fede il mio popolo.

Ma è nella terza sezione che egli, come di nuovo davanti al dipinto, cerca per sé la stessa immedesimazione che aveva guidato la mano del pittore. A questo proposito, il Cristo crucificado di Velázquez, forse uno dei crocifissi dipinti più inquietanti della storia dell’arte, appare perfetto a rappresentare la fede tormentata di Unamuno e quel suo paradosso fondante tra la disperazione mortale della ragione e l’irriducibilità del cuore umano. Il Cristo che osserviamo sulla tela mostra infatti, in contrasto fra loro, il capo reclinato dell’uomo senza vita e il corpo di una persona viva, che non sembra patire alcun dolore a dispetto dei chiodi e della posizione; e poi luminoso, addirittura sereno, su un fondo scuro elegante, per niente minaccioso. Le stesse braccia aperte paiono più un gesto simbolico che la costrizione di una tortura dolorosa e infamante: un uomo ideale, sovrapponibile perfettamente alla posa e alle proporzioni vitruviane di Leonardo, e, insieme, un uomo morto; neanche la croce, il cartiglio puntiglioso, sembrano ammettere il sacrificio divino e il suo esito eterno.

Ci avanziamo, Signore, mendicando

La sezione conclusiva del poema percorre la redenzione finale, la ricapitolazione di ogni cosa in Cristo, per mezzo del quale viene svelato il valore e il significato di tutto nella prospettiva eterna e reintegrata l’unità del creato.

E Tu, Cristo che sogni, sogno mio, fa’ che, tra le tue braccia addormentata, l’anima mia ti sogni e, fatta nuova, vinca la vita e trionfi poi con Te.

E qui l’esplorazione mistica si arresta come di schianto, il linguaggio si blocca come scoprendosi esausto e inizia l’Orazione finale. Unamuno tuttavia, nello stesso istante in cui Dio gli “toglie” la parola, in cui scopre di aver sperato invano di costringerlo a svelarsi, improvvisamente sembra percepire che – a somiglianza di Cristo sulla croce – proprio la sua sconfitta può ottenere la risposta che chiedeva, e offrire a Dio la porta per entrare. Nel momento più vuoto, desolato, disperato di quel lungo percorso iniziato sette anni prima – Tu che stai muto, Cristo –, Unamuno intravede, lui stesso come in croce, il compimento delle proprie parole – Tu che stai muto, Cristo, per udirci –; ognuna una goccia, una dopo l’altra, e non una che andrà persa, necessarie a scavare la pietra del suo cuore, a scolpire la sua personale preghiera; infine in attesa, solo, e mendicando.

Fa’, Signore,
che quando alfine lascerò
l’antro di questa notte tenebrosa,
in cui sognando il cuore intorbidisce
entri nel chiaro giorno sconfinato
con gli occhi fissi sul tuo bianco corpo,
Figlio dell’Uomo, Umanità perfetta,
nell’increata luce che non muore;
gli occhi, Signore, fissi nei tuoi occhi
e in te, Cristo, perduto il guardo mio.






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