L’analisi linguistica ci mostra che tra noia e odio vi è una stretta contiguità. All’origine di noia vi è infatti il verbo latino raro e tardivo inodiare.
Per esprimere l’idea di odio il latino classico possiede il verbo odi. Si tratta di una formazione particolare: è un perfetto che non è accompagnato da un corrispondente tema di presente e non ha un significato di passato. Per capire la differenza: dixi o amavi sono perfetti associati a temi di presente dico o amo ed esprimono un’azione passata: ‘ho detto, ho amato’: odi invece ha valore di presente, collocandosi sullo stesso piano di amo, al quale viene accoppiato in un noto epigramma di Catullo: odi et amo.
Inoltre, mantenendosi fedele al valore antico del perfetto, odi non indica un’azione, ma uno stato conseguente a un’azione, e siccome in origine il perfetto aveva valore intransitivo e non possedeva una forma passiva (chi ha studiato almeno un po’ di latino sa che per avere il perfetto di dixi o amavi bisogna ricorrere a perifrasi, dictus sum ‘sono stato detto’, amatus sum ‘sono stato amato’) odi esprime un sentimento che resta all’interno di chi odia fino a corroderne la coscienza.
L’odi et amo di Catullo vale dunque “provo dentro di me un sentimento di rancore e contemporaneamente ti amo”: amo è un attivo che implica una posizione di apertura verso l’altro, mentre odi evoca una condizione di chiusura in se stesso (il poeta non sa spiegarsi la contraddizione, sa solamente di viverla).
Su odi è formato il sostantivo odium, e sulla base di questo, al fine di completare il paradigma difettivo di odi, viene poi costituito (secondo un diffuso modello di coniugazione) odiare, attestato fin dai primi secoli dell’era cristiana.
Da odiare si ha poi il composto inodiare: l’aggiunta di in– è dovuta al frequente ricorrere di formule come in odio esse o in odio habere ‘essere o avere in odio’: inodiare è quindi una formulazione sintetica, in un’unica parola, di queste espressioni. La parola assume la forma enoïer in francese antico (oggi ennuyer) e enojar in provenzale: progressivamente il significato si attenua, per ricoprire soprattutto l’area semantica del rincrescimento o della molestia, in senso sia transitivo (procurare fastidio) sia intransitivo (provare dispiacere).
Il prestigio della cultura francese e provenzale fa sì che queste forme si diffondano alle vicine lingue romanze: da esse il catalano enutjar, lo spagnolo enojar, l’italiano annoiare, quest’ultimo con una modifica del preverbo iniziale, forse per il richiamo di altri verbi come annoverare, annullare, annuvolare e così via.
Da annoiare viene poi tratto noia, applicando a rovescio il rapporto che esiste per esempio fra arrivare, allargare e le voci su cui sono stati formati, riva, largo.
Pertanto noia è una formazione tipicamente italiana che non ha equivalenti in altre lingue romanze. Il sostantivo può fare riferimento a una situazione di insoddisfazione interiore o di obiettivo disordine esterno. «Ma tu perché ritorni a tanta noia?» chiede Virgilio a Dante nella selva oscura. Dunque noia per eccellenza è l’inferno, la confusione inestricabile, ma è anche il disagio di fronte a situazioni ripetitive o prive di attrattiva (che noia!). Dalla storia della parola (e dalla comune esperienza quotidiana) sembra comunque difficile arrivare alla conclusione che «la noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani», come vorrebbe Leopardi.
Tornando a odi, la parola si rifà a una radice indoeuropea *od– poco diffusa: vi è un possibile collegamento in armeno, una lingua indoeuropea che spesso conserva interessanti arcaismi (ateam ‘io odio’). In lingue germaniche si hanno parole con vaghe somiglianze (hate dell’inglese e hassen ‘odiare’ del tedesco), ma formalmente diverse.
Infine, un ultimo dilemma riguarda il possibile legame di questa radice con formazioni quali il latino odos ‘odore’ (e il greco ozō da odyō ‘emano odore’, e odmē, armeno hot, albanese amë ‘odore’, tutti da *od-). Due radici *od- casualmente identiche o una sola radice con sviluppi semantici distinti? Se il collegamento fosse lecito, l’odio sarebbe assimilato a una momentanea sensazione di ripugnanza sensoriale radicatasi nell’animo e trasformata in sentimento duraturo. Non ci sono indizi né per avvalorare né per escludere l’ipotesi.
L’autorevole dizionario etimologico latino di Ernout e Meillet la definisce nient’altro che una plaisanterie (poco più di uno scherzo), ma la scienza non ha elementi decisivi per pronunciarsi in modo sicuro.