I protagonisti dell’Odissea sono i vincitori della guerra di Troia. Hanno conquistato la città dopo dieci anni di assedio, sono ripartiti portando ricchezze, con le navi su cui era iniziata la spedizione. La loro vittoria è divenuta in breve tempo epopea eroica: presso il popolo dei Feaci, che non hanno avuto parte nell’impresa e vivono appartati rispetto agli altri popoli, il cantore Demodoco celebra durante il banchetto le grandi vicende dei conquistatori di Troia: “E poi cantava come abbatteron la rocca i figli dei Danai / calati dal cavallo, la concava insidia lasciando; / cantava come qua e là l’ardua città saccheggiaron”. Ulisse è presente, naufrago dopo dieci anni dalla fine della guerra, solo e privo di tutto: i Feaci l’hanno ospitato e soccorso. Soltanto il re, Alcinoo, si accorge che Ulisse piange, celando le lacrime col mantello; ancora non sa chi sia lo straniero, ma interrompe il canto che lo turba e lo fa soffrire.
La gloria dell’impresa si è ridotta ad un canto in terra lontana, dopo essere stata una sciocca ed inutile vanteria in un altro luogo lontano, la terra del Ciclope mangiatore di uomini, a cui Ulisse aveva proclamato: “Ci vantiamo guerrieri dell’Atride Agamennone, / di cui massima è ora sotto il cielo la fama, / tale città ha distrutto, ha annientato guerrieri / innumerevoli”. Che ne è stato di questa gloria? Nessuno dei vincitori sopravvissuti ricorda la guerra con gioia.
Ulisse ha perduto i suoi soldati, che dopo la guerra erano divenuti i compagni, alcuni morti per un suo errore, la maggior parte per loro colpa: tutto il suo sforzo è stato teso a salvare il ritorno suo e dei suoi, ma non è riuscito. Fra gli altri capi di eserciti, il vecchio Nestore, uno dei primi a tornare in patria, ricorda con dolore la morte di tanti amici e soprattutto del figlio, che era il più giovane di tutto l’esercito greco: “Là tutti i migliori furono uccisi / là Aiace guerriero è sepolto, là Achille, / e Patroclo, il consigliere caro ai numi,/ là il caro mio figlio forte e senza rimprovero, / Antiloco, velocissimo a correre e forte guerriero”.
Menelao è andato errando per otto anni prima di tornare in patria, ricco di beni: ma al ritorno ha saputo che Agamennone, suo fratello, è stato assassinato appena rientrato nella sua reggia: “intanto un altro mi uccise il fratello / a tradimento, improvviso, e fu inganno della moglie funesta. / E io senza gioia su tanti beni ora regno”. Lungo è il racconto di Menelao, col ricordo di altri compagni che hanno trovato sventura nel ritorno, come l’empio Aiace d’Oileo e Ulisse ancora ramingo. Un pianto accomuna tutti nella ricca dimora dell’Atride, Elena dal cocente pentimento, Telemaco che chiede del padre, il figlio di Nestore che ricorda il fratello perduto.
Il perché di questa guerra insensata lo proporrà Penelope allo sposo ritrovato: “Ah no, Elena Argiva, la figlia di Zeus, / con l’uomo straniero non si sarebbe unita d’amore e di letto, / se avesse saputo che ancora i figli guerrieri dei Danai / dovevan menarla a casa, alla terra dei padri. / Ma un dio la travolse a compiere l’azione sfrontata; / la colpa triste non capì prima in cuore, / la colpa da cui su noi pure s’è rovesciata sventura.
Sarà compito dei tragici prima, di Virgilio dopo, mostrare la guerra dalla parte dei vinti. Soprattutto Euripide, che scrive durante la guerra del Peloponneso fra la sua Atene e Sparta, dedica ai vinti di Troia diverse tragedie, le Troiane, l’Ecuba, l’Andromaca: le donne fatte prigioniere e rese schiave dei vincitori, dopo aver perso sposi e figli. La veggente Cassandra così paragona vincitori e vinti: “Vi mostrerò che questa città è più beata / degli Achei… Fra loro quelli che prese Ares / non videro i figli, non furono avvolti da pepli / fra le mani della sposa, ma in terra straniera / giacciono. E a casa capitavano sventure simili: / morivano le vedove e quanti erano rimasti in casa privi di prole, / dopo aver cresciuto i figli per altri, né vi è chi sulle loro tombe / versi alla terra libagione di sangue. / I Troiani invece, la gloria più bella / morivano per la patria”.
Virgilio racconta la fuga e l’esilio dei troiani sconfitti, esuli dalla loro terra, raminghi alla ricerca di una nuova sede, una nuova patria, sempre pronti a ripartire: c’è però nel poeta latino la consapevolezza di un destino positivo, di una meta promessa, di una storia che andrà avanti oltre la vita del piccolo gruppo di profughi. Quando in Italia si troveranno di nuovo a combattere per ottenere di stanziarvisi, i nuovi nemici chiederanno l’alleanza con il greco Diomede, l’antico combattente della guerra di Troia da anni stabilitosi nel sud d’Italia. Ma Diomede ricorda le sventure subìte dopo la fine della guerra, l’avversione evidente degli dèi verso i vincitori: “No certo, non spingetemi a tali battaglie: / non ho più guerra coi Troiani dopo la distruzione / della rocca di Pergamo, e non ho né ricordo né gioia per i mali di allora”. Esorta quindi a tentare di concludere la guerra accordandosi coi nemici: “Si uniscano in patti le destre / come potete”.
Colpisce il fatto che questa proposta di risoluzione del conflitto ci riporta di nuovo all’Odissea. Al termine del poema sorge una battaglia fra i parenti dei pretendenti uccisi e Ulisse coi suoi alleati; ma interviene la dea Atena, fermando prima i nemici: “Smettete la guerra terribile, Itacesi / così da accordarvi presto senza spargimento di sangue”. Poi Ulisse: “Divino Laerziade, ingegnoso Ulisse, / smetti, cessa la contesa della guerra immutabile, / perché non si adiri Zeus Cronide dal vasto sguardo. / Così disse Atena, ed egli obbedì, e gioì nel cuore. / E patti stabilì fra loro per il futuro / Pallade Atena, figlia di Zeus Egioco”.
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