Fine anni 70: la sinistra Usa vira sui diritti civili e sul politically correct. La cancel culture nasce da lì. Se ne parla oggi al Meeting di Rimini 2023. L'autore anticipa il suo interven
Verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso la sinistra americana incomincia a distogliere lo sguardo dalle classi sociali più svantaggiate per concentrarsi sempre di più sui diritti civili e la tutela degli interessi di un’ampia varietà di gruppi percepiti come marginalizzati: le donne, i neri, gli immigrati, la comunità Lgbt e simili, avviando una vera e propria battaglia sul linguaggio, nel tentativo di bandire parole che potessero in qualche modo evocare una qualsiasi forma di discriminazione. È l’inizio del cosiddetto “politicamente corretto”, fenomeno che ha trovato nuova linfa con l’avvento dei social, fino ad assumere una veste assai più aggressiva e pericolosa, la cosiddetta “cancel culture”, diffusa ormai non soltanto a sinistra e non soltanto in America. In estrema sintesi si potrebbe dire che siamo di fronte a un uso isterico, vandalico del tema dell’identità.
L’appartenenza a un qualsiasi gruppo sembra che non abbia altro collante che la rabbia di chi si sente sotto attacco, offeso, discriminato. Una rivendicazione tronfia d’identità che non si preoccupa minimamente di coltivarsi e rendersi plausibile con atteggiamenti e argomenti ragionevoli, giustificabili e magari condivisibili. L’espressione di una volontà che non conosce altro limite che se stessa. Ma come è potuto accadere tutto questo?
Alla radice stanno sicuramente le obiettive discriminazioni di cui in passato sono rimasti vittime i gruppi sociali di cui si diceva sopra. Sarebbe semplicemente disonesto disconoscerle. Oltretutto, come diceva Walter Benjamin, è sempre opportuno fare il contropelo alla storia, mostrandone il lato oscuro, le ambiguità e le tragedie che spesso si nascondono dietro i suoi monumenti.
Ma la cancel culture non fa nulla di tutto questo; si esprime semplicemente in modo vandalico nei confronti del passato, come se esso potesse essere restituito a una e a una sola dimensione. Una chiusura fanatica e manichea, utile a eccitare gli animi di coloro che sono “dentro”, ma lontana dalla realtà e dalla verità. I principali presupposti di questa chiusura vanno cercati a mio avviso nel clima culturale che verso la fine degli anni Settanta inizio anni Ottanta del secolo scorso viene denunciato da Christopher Lasch come “cultura del narcisismo” e da Alasdair MacIntyre come “emotivismo” morale.
Il propellente ideale è rappresentato invece dagli odierni social media, il vero braccio armato della cancel culture. Se il narcisismo, unitamente a crescenti aspettative terapeutiche e a una buona dose di risentimento sono i tratti distintivi delle nostre società; se il sommo criterio di giudizio morale diventa ciò che io sento come buono e giusto; se da un punto di vista sociale conta soprattutto la soddisfazione delle “esigenze emotive” del cittadino/paziente, ovvio che in tale contesto diventi difficile far valere idee universalistiche e interessi generali.
A sinistra e a destra prevale insomma una sorta di emotivismo identitario, che esaspera quello che per me è il brodo di coltura ideale della cancel culture e uno dei principali problemi del nostro tempo: il progressivo accantonamento dell’idea di verità. Se la validità delle nostre posizioni dipende dai like che esse ricevono sui social, anziché dai buoni argomenti razionali che siamo in grado di addurre a loro favore, sarà molto difficile arginare la cancel culture.
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