La società dei consumi denunciata da Pasolini non ha prodotto una cultura in positivo. Per questo non ha potuto asciugare le sorgenti del sacro (2)
Ma c’è di più. La “società dei consumi” non solo non è alla base della secolarizzazione, ma non è nemmeno a fondamento dello sviluppo assolutamente inatteso che si è verificato alla fine degli anni Cinquanta. Non solo non ha prodotto una trasformazione nella cultura immateriale, ma non ha nemmeno inciso su quella materiale.
Questi anni infatti non sono stati solamente quelli dell’emigrazione morale descritta da Guido Piovene, ma hanno rappresentato anche l’edificazione di un’Italia assolutamente eccezionale sia sul piano politico-amministrativo, sia su quello economico e su quello educativo.
L’Italia degli anni Cinquanta, ostinata e lavoratrice, non porterà solamente la transizione dalla dittatura alla democrazia e il passaggio dalla campagna alla città, ma realizzerà un Pil inferiore solo a quello della Germania, sarà la terza produttrice al mondo di elettrodomestici dopo Stati Uniti e Giappone, mentre la sua unità monetaria, la lira, sarà premiata due volte dal Financial Times (nel 1959 e nel 1964) come la valuta più stabile e robusta a livello mondiale.
La spinta in avanti è così forte che anche il ristagno dell’occupazione industriale, determinato dalla congiuntura del 1963, non impedirà la spinta in avanti dei consumi né la crescita produttiva.
È singolare che in gran parte dei manuali scolastici quella che è stata una formidabile opera di riedificazione morale e politica sia invece menzionata in gran parte solo per i ristagni e le carenze che ancora imbrigliavano parti del Paese. Più dello sviluppo economico che viene di fatto ridimensionato, sono le trasformazioni che si erano prodotte nell’ambito dei consumi e degli stili di vita a ritenere l’attenzione: poco più di una variazione folklorica nelle pratiche di vita, che non inficia il bilancio assolutamente critico dell’Italia come “Paese mancato”. L’Italia resta un Paese modesto, anche se gioioso e superficiale al tempo stesso.
In realtà lo sviluppo economico non solo c’è stato, ma va accreditato proprio a quelle stesse culture (contadina, artigiana ed operaia) che, nella loro interazione, fondavano il tessuto condiviso della coscienza collettiva nazionale, alle quali si è affiancata una forte quanto encomiabile volontà politica di crescita.
Ignorato il ruolo di quest’ultime e ridotto lo sviluppo alla sola diffusione dei consumi secondari ed all’esaltazione delle prime vacanze contrapposti all’immagine mesta di regioni intere votate all’emigrazione, l’Italia del boom economico non gode di una rappresentazione – ed ancor meno di una narrazione – analoga a quella che le altre collettività nazionali elaboreranno all’interno dei rispettivi contesti.
La rilettura assolutamente discreditante che ne farà l’intellighenzia italiana degli anni Sessanta e Settanta, opportunamente denunciata da Galli della Loggia, produrrà un ridimensionamento permanente di quelle stesse qualità che andavano invece riconosciute e sottoscritte.
Se la società dei consumi si afferma senza ostacoli ed è alla base della mutazione antropologica che svuoterà l’universo del credere non è pertanto per la qualità dei contenuti che produce, ma solo perché può avvalersi della mancata considerazione delle diverse culture che alimentavano la coscienza collettiva del popolo italiano.
L’abbandono delle culture, contadina, artigiana ed operaia, intercettato da Pasolini a favore di una cultura “americaneggiante”, “borghese” ed “edonista” è tanto più facile a realizzarsi quanto più le prime non fruiscono di nessuna rappresentazione in grado di valorizzarle, di nessuna narrazione capace di riconoscerne l’anima e la dignità.
In tutto questo certamente la critica ad una dimensione devozionale in virtù dei propri limiti e il suo mancato riconoscimento per le speranze di vita che alimentava, presente in tanta critica interna allo stesso universo culturale cattolico, ha giocato un ruolo decisivo.
I banchi vuoti nelle chiese non sono allora solo il risultato di una cultura dei consumi emergente, quanto quello di un mancato riconoscimento di una sensibilità religiosa che le preesisteva e che, assieme alle altre culture popolari, aveva rifondato l’Italia.
Solo a condizione di questo mancato riconoscimento la non-cultura dei consumi ha potuto dilagare, affermandosi in un contesto già privato della propria identità.
Ma è proprio in virtù di questo mancato riconoscimento che la mutazione antropologica è in realtà più apparente che reale. Nessuno scambia la letizia de-problematizzante del vivace universo dei consumi per la soluzione delle domande interiori che continuano ad abitare l’animo di ciascuno. Proprio per questo la scomparsa della pratica e lo sbiadirsi delle credenze religiose non impediscono che sensibilità e fede possano riemergere, come un fiume carsico, nei nuovi spazi nei quali il bisogno di senso si riafferma con tutta la sua urgenza.
I fronti del diritto alla vita come quello del non abbandono del morente, il recupero alla dignità della relazione significativa di solitudini troppo spesso ignorate nella loro fatale fragilità, costituiscono altrettante aree dove l’universo de-problematizzante dei consumi e il puro intrattenimento cedono volentieri il passo ad una sensibilità religiosa che inaspettatamente riemerge come fonte di indispensabile rinascita.
(2 – fine)
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