Ambientato in Irlanda, "Ai tempi del vecchio Dio" di Sebastian Barry mette al centro l’ex poliziotto Tom Kettle e uno sconvolgente caso di pedofilia
Ci sono libri che fanno male, e ci sono fatti che ci feriscono. In entrambi i casi, tendiamo, normalmente, a voltare lo sguardo altrove. Ci sono eventi terribili che entrano nelle nostre giornate gaie e nichiliste, come ricordava Del Noce: bambini che muoiono ogni giorno a Gaza e in troppe guerre orrende che scegliamo di non vedere.
E poi ci sono libri come questo, splendido e capace di graffiare l’anima come raramente accade. Sebastian Barry, in Ai tempi del vecchio Dio (Einaudi, 2024) ci porta alle radici del male che ci circonda e, talvolta, alberga in noi, perché gli lasciamo spazio. La scrittura è perfetta. La trama avvolgente tiene svegli fino all’alba, sospesi in un tessuto vibrante e angosciante da cui non ci si riesce a staccare, pena l’abdicazione all’essere persona, al diventare “assenti e inerti”.
Tom Kettle è un poliziotto finalmente in pensione, ritiratosi su una scogliera irlandese per consumare le sue ultime stagioni. Ha vissuto un amore unico, che ancora gli scalda le viscere, e ha generato due figli stupendi, ai quali pensa con amore tremante da quando se ne sono andati.
La pagina luminosa, però, ne nasconde una tremenda. Scava negli abissi più oscuri della storia recente, in cui troppi uomini di Dio – chiamati a incarnare il volto dell’amore – hanno abusato di bambini e bambine. Ferite impossibili da sopportare, stigmate che entrano nella carne e continuano a sanguinare. “Un divoratore della felicità dei bambini? Uno stupratore della loro sostanza fisica? Uno schifoso e ignobile assassino, abietto figlio delle tenebre…”.
Riaffiora alla mente lo sgomento di Benedetto XVI davanti a questo male osceno, inguardabile. Eppure è accaduto, e bisogna finalmente affrontarlo, non scansarlo. Occorre guardare il male in faccia. Semplicemente perché esiste e non ne sono estraneo. Mi riguarda. In qualche modo è – scandalosamente – dentro di me. E, per quanto assurdo, posso dargli spazio. Sebastian Barry riesce mirabilmente a farcelo comprendere.
Perché al male si acconsente. Gli si cede spazio, anche quando siamo vittime. È un carcinoma insaziabile che divora nuovi brandelli di carne, persino quelli di chi ha subito il male, come la moglie del protagonista. È terribile il male, perché si nutre di sé stesso, perché semina e si ostina ad avvolgere tutto in tenebra.
“Era il motivo per cui, togliendosi un peso dalle spalle, lei si era caricata di altro. Di qualcosa di molto più leggero, molto più letale. Il seme del suo disfacimento futuro? Il minuscolo punto d’infezione, di veleno”.
È una spirale inarrestabile che trascina verso il vuoto. Essere vittima genera un sentimento di rabbia crescente, un grido di giustizia, che in un istante si trasforma in vendetta, talvolta solo pensata, ma comunque coltivata, accolta.
L’ho scoperto nelle trame semplici e comuni a tutti, nelle screpolature inevitabili di ogni relazione umana: al lavoro, in casa, tra amici e colleghi. Dopo aver subito un torto, anche minimo, se non attingo a un’altra via, se non perdono, se non mi affido alla sola vera rivoluzione globale, se non inverto questa orribile discesa infernale, pur senza le mie forze ma almeno con la mia supplica, divento parte del male.
Il perdono è sconveniente, antieconomico, ingiusto. Ed è l’unica via per non scatenare ogni tipo di guerra; occorre essere molto amati per renderlo merce di scambio al male.
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