LETTURE/ Statisti, tragici, pacifisti: i politici che (non) servono alla guerra

- Vincenzo Rizzo

Non esiste solo il nichilismo occidentale o jihadista: ma c'è anche quello russo. Lo sguardo sgomento cerca altro: testimoni, libertà e verità

ucraina guerra mariupol 2 lapresse1280 640x300 Bombardamento russo (LaPresse)

C’è una grande differenza tra uno statista, un politico tragico, un costruttore di politiche di pace, un politico realista, un uomo di potere.

Lo statista porta avanti la sua azione politica a partire da un avvenimento totalizzante, interiorizzato profondamente, che diventa il grido di una storia nuova. Adenauer, De Gasperi, Schuman vissero la catastrofe della seconda guerra mondiale: una guerra di annientamento. L’esperienza della guerra nelle proprie case, dei connazionali morti, delle ferite traumatiche portò la loro vita a progettare la costruzione di una casa comune. Proprio dello statista, infatti, è guardare al bene collettivo e prevenire la guerra, edificando istituzioni comuni, attraverso relazioni solide e franche, e non dimenticando affatto l’importanza della difesa della libertà e della democrazia. Grazie al loro operato e alla loro visione della politica, l’Europa ha goduto la possibilità di un lungo periodo di pace.

Il politico tragico, invece, a causa di una cecità dello spirito, persegue con ostinazione il suo disegno ideologico, fatto di espansione, distruzione e autodistruzione. Le immagini dei giovanissimi della Hitler-Jugend e degli anziani del Volkssturm che combatterono, a lungo e a giochi già fatti, sono emblematiche. La lotta fino all’ultimo quartiere, infatti, non prevede la resa. Non si può sopravvivere alla sconfitta. Meglio la propria morte e quella di tutti che sedersi a un tavolo con il nemico.

I costruttori di politiche di pace, invece, fanno il pelo alla realtà data per scontata, cercando di evitare odiose polarizzazioni e blocchi inamovibili. La loro sorte è spesso segnata dalla guerra condotta dal Potere contro la vita spesa per un bene superiore. Basti pensare alle morti violente di Mohandas Gandhi, Dag Hammarsjköld, Martin Luther King, Olof Palme, ecc.

Il politico realista, invece, all’interno del proprio campo d’appartenenza, tiene conto di tutti i fattori in gioco in un’ostilità grave, cercando un percorso possibile. Riconosce la potenzialità distruttiva del protrarsi di un conflitto tra potenze, per i possibili effetti tragici, e agisce di conseguenza. L’inimicizia, per il realista, è morale/strategico-ideologica, gravemente e rischiosamente seria, ma non definitivamente mortale, illimitata e irreparabilmente catastrofica per l’umanità. Tutti siamo, perciò, ancora grati a John Kennedy e a Nikita Kruščëv, per avere osato rischiare la pace, sfidando le sirene del nulla e i falchi interni.

Gli uomini di potere, come attesta il “di”, antepongono la volontà di potenza alla verità della vita, ritenendo il proprio progetto politico assolutamente necessario. Decidono dell’esistenza di altri popoli e delle vite dei propri soldati, non pensando alle vittime innocenti e alle lacrime di dolore. Il costo in vite umane viene relativizzato o nascosto, rispetto alle strategie geopolitiche egemoniche. Il figlicidio antinaturale viene minimizzato dalla propaganda e dal consenso delle élites, assetate di uno spicchio di potere in più. I potenti, insomma, sostenuti dai loro forti e mediatici entourages non ancorano la loro azione alle possibili conseguenze, in una sorta di autochiusura solipsistica, fatalmente monologica.

Il potere della più grande democrazia occidentale ha, in passato, deciso di esportare la democrazia in Iraq e in Libia, confortato e giustificato da intellettuali neoconservatori ed eccezionalisti. Le conseguenze degli interventi militari sono sotto gli occhi di tutti: lutti, povertà, instabilità, miriadi di ingovernabili e pericolosi capi locali. Il rimedio, insomma, è stato più deleterio della malattia. Il potere autocratico ha deciso, a sua volta, l’attacco alla Georgia (2008) e poi l’invasione da diverse direttrici dell’Ucraina con un’imponente armata. La grave decisione di infliggere dolorose sofferenze nell’altro si è scontrata con la decisa resistenza degli ucraini, che vogliono essere liberi e non sottomessi, affermando la loro legittima e legale sovranità territoriale, riconosciuta a tutti i livelli.

C’è, però, a ben vedere, una differenza sostanziale e decisiva tra potere democratico e potere autocratico. Il primo deve rendere conto delle sue scelte e dei suoi errori agli elettori, all’opinione pubblica, all’opposizione, alla stampa. Può, perciò, essere soggetto a critica e a dissenso. Il Tribunale Russell, costituito dal filosofo britannico pacifista e da Sartre, ad esempio, ha potuto esercitare la sua difesa dei diritti umani in Vietnam, informando sull’uso di armi proibite e sui crimini commessi. E nel deprecato Occidente è stato possibile manifestare contro le guerre e parlare delle morti dei civili a Fallujah. Milana Terloeva, invece, ha potuto pubblicare il suo libro sulla terribile guerra in Cecenia, Ho danzato sulle rovine (Corbaccio, 2008), solo in Francia. Anna Politkovskaja, Stanislav Markelov, Anastasia Baburova e Natalia Estemirova sono stati uccisi per il loro desiderio di verità e per la difesa della dignità della persona. I loro nomi, scritti nel dolore della verità negata, restano incisi per sempre nel corpo della storia.

Diritti umani e dignità della persona, peraltro, non sono un cavallo di troia occidentale, frutto dell’evoluzione della seconda formula dell’imperativo categorico e del desiderio di pace perpetua di Kant. Essi attingono alla sorgente stessa dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio. La vita di ogni persona, perciò, è sacra e inviolabile.

Tali diritti, però, vengono negati agli ucraini attaccati e ai cittadini russi. Oggi, non è possibile esprimere dissenso contro l’aggressione di uno Stato sovrano, pena l’arresto e il carcere. L’autocrazia, infatti, ammette solo sottoposti alla verticale del potere al suo interno e sottomessi o vassalli nello spazio ritenuto proprio. A questo problema si assomma la giustificazione della brutale azione militare. Nicholas Werth, presidente di Memorial France, ha ricostruito in un recente pamphlet la riscrittura della storia operata dalla leadership russa, volta a ideologizzare l’invasione. Ad essa si aggiunge, anche, l’espressione usata per la prima volta nella storia delle guerre, cioè “guerra metafisica”. Tale definizione inedita sembra dare ragione alle tesi di David G. Lewis che, in Russia’s New Authoritanianism: Putin and Politics of order (2020), sostiene l’influente presenza delle idee di Carl Schmitt nell’operato dell’autocrazia: stato d’eccezione, amico/nemico, dimensione del Kathéchon. E tuttavia l’uso di tali termini pone delle domande. Ma se una guerra è metafisica, quando finisce? Nell’illimitato? E un innocente nasce corrotto, a partire dalla sua nazione o civiltà di appartenenza?

Altro aspetto è la denazificazione. Può un intero popolo essere prigioniero di una categorizzazione e stigmatizzazione imposta dall’esterno? E se un russofono e russofilo è nato in Ucraina, può essere bombardato, cioè denazificato?

Riscrittura della storia con cancellazione delle scomodità (Gulag, stalinismo, ecc.) che obiettano alla narrazione propagandata, guerra metafisica e denazificazione portano l’attuale guerra sullo scivoloso e imponderabile terreno dell’irrealismo ideologico. Si tratta di un fatto drammatico, perché gli uomini di potere si trovano, comunque, a dover scegliere, in ultima analisi, tra realismo e tragedia. E a dover definire, dunque, la natura dell’inimicizia posta in atto. In una situazione storica in cui la guerra ha troppi aspetti nuovi (guerra economica, ibrido-ricattatoria, informatica, mediatica, non ortodossa, nucleare, psicologica, robotica, spaziale), che possono sfuggire al controllo per errore, è necessario, perciò, il ritorno alla saggezza e al rispetto dei diritti dei popoli. La popolazione ucraina è martoriata e colpita: aspetta giustizia, salvezza e pace. Sono ormai troppe le vittime inermi e le persone sfollate di cui non si sa niente.

Martha Nussbaum ha, peraltro, dimostrato l’importanza delle emozioni in politica nel testo Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia (Il Mulino, 2014). E quante emozioni suscita la guerra protratta? Che cosa provoca la tempesta interiore per un innocente ucciso, per un commilitone morto, per un compatriota sofferente?  Risentimento e odio non vanno sottovalutati, perché possono portare alla distruzione incontrollabile. Il fattore umano, infatti, non è mai contenibile dalla presunta lucidità di un disegno politico.

A tal proposito, Nikolaj Sokov, su Georgetown Journal of International Affairs, ha sottolineato l’incertezza delle linee rosse sui rischi che l’umanità corre. Tali rischi vengono rincarati dall’atteggiamento di politologi e presentatori tv, che, sui canali russi, parlano di guerra nucleare, cioè del super delitto, banalizzando il male estremo. La minaccia nucleare diventa una chiacchiera da talk show o un videogioco con animazione 3D, senza considerare il dovuto rispetto per la memoria delle vittime di Hiroshima e Nagasaki.

Insomma, non esiste solo il nichilismo jihadista o quello occidentale, ma c’è ed è attivo quello russo. Di fronte ad esso, lo sguardo sgomento cerca altro: testimoni, libertà e verità. Papa Francesco con il suo giudizio chiaro e netto sullo “schema di Caino” e con la sua vita ci porta, ancora, a sperare contro ogni speranza, nonostante tutto. E la nostra memoria ci guida a san Giovanni Paolo II, il quale indicava i santi martiri del XX secolo come strada per il dialogo e invitava i politici a guardare san Tommaso Moro: un uomo che ebbe il coraggio di dire no al Potere. Un’altra vita, insomma. È quello di cui c’è bisogno per tutti, soprattutto per gli ucraini oppressi da un’insensata guerra neo-imperialistica, che produce solo lutti e catastrofi umanitarie.

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